Le misure protettive nella composizione negoziata della crisi d’impresa

Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019), arricchito dal D.L. 118/2021 (convertito con modificazioni nella L. 147/2021), rappresenta un punto di svolta nella gestione della crisi d’impresa. La composizione negoziata della crisi emerge come uno strumento volto a garantire la continuità aziendale attraverso il dialogo tra il debitore e i creditori, guidato da un esperto indipendente. In tale contesto, le misure protettive e le misure cautelari giocano un ruolo chiave, consentendo la sospensione di azioni esecutive e cautelari dei creditori e tutelando così il patrimonio aziendale, per favorire il buon esito delle trattative di risanamento. Questo articolo analizza la natura, gli effetti e i principali orientamenti giurisprudenziali su queste misure, soffermandosi sulle specifiche garanzie previste per i contratti essenziali e sui limiti imposti ai creditori.

Definizioni Normative di Misure Protettive e Cautelari

Secondo l’art. 2, co. 1, lett. p) e q) del D.Lgs. 14/2019:

  • Misure protettive: sono misure temporanee richieste dal debitore per impedire che azioni dei creditori possano pregiudicare, sin dalla fase delle trattative, il buon esito del processo di risanamento.
  • Misure cautelari: provvedimenti emessi dal giudice a tutela del patrimonio dell’impresa, concepiti per garantire provvisoriamente la realizzazione degli strumenti di regolazione della crisi o delle procedure concorsuali.

Queste misure si differenziano per natura e modalità di applicazione: le misure protettive, temporanee e tipiche, sono generalmente concesse su richiesta del debitore e producono effetti immediati dalla pubblicazione nel Registro delle Imprese. Le misure cautelari, di contro, sono atipiche e necessitano dell’intervento del giudice.

La Durata delle Misure Protettive

Le misure protettive possono avere una durata di 120 giorni, prorogabile per ulteriori 120 giorni fino a un massimo di 240 giorni (art. 55, co. 3; art. 8 del Codice della Crisi). Questa limitazione temporale è stata pensata per bilanciare gli interessi del debitore con quelli dei creditori, evitando che una protezione eccessivamente estesa possa compromettere le loro pretese di recupero. Le misure decadono automaticamente in mancanza di conferma da parte del tribunale entro 30 giorni dalla loro pubblicazione nel Registro delle Imprese​.

Gli Effetti delle Misure Protettive sui Creditori

Ai sensi dell’art. 18, co. 5 del D.L. 118/2021, i creditori non possono rifiutare unilateralmente l’adempimento dei contratti pendenti né risolverli per il solo fatto del mancato pagamento di crediti pregressi. Questo implica che le controparti non possano modificare i termini contrattuali a sfavore dell’impresa in crisi, se non previa autorizzazione del tribunale. Il divieto di risoluzione unilaterale dei contratti si applica a tutte le obbligazioni sorte anteriormente alla pubblicazione della richiesta di misure protettive nel Registro delle Imprese, garantendo continuità nei rapporti commerciali.

Gli orientamenti giurisprudenziali, come evidenziato dal Tribunale di Milano (2022), hanno chiarito che tali misure operano erga omnes: la pubblicazione è sufficiente a rendere note le misure a tutti i creditori, senza necessità di notifiche individuali. La Corte ha inoltre stabilito che una volta pubblicate, le misure protettive si applicano indistintamente a tutti i creditori, evitando al debitore l’onere di notificare singolarmente ciascuna misura​.

Contratti Essenziali e Forniture Indispensabili

Una parte fondamentale della normativa riguarda la protezione dei contratti essenziali, come quelli per la fornitura di servizi indispensabili (es. energia, gas e acqua), che non possono essere interrotti unilateralmente dal fornitore neanche in caso di mancato pagamento da parte del debitore. L’art. 64, co. 4 del Codice stabilisce infatti che i creditori non possono sospendere l’erogazione dei contratti essenziali, nemmeno per il mancato pagamento delle prestazioni correnti, in quanto ciò comprometterebbe la continuità dell’impresa. Tale disposizione, pur nata per i soli accordi di ristrutturazione, è stata estesa analogicamente alle misure protettive nelle procedure negoziate, a protezione della gestione aziendale durante il risanamento.

Misure Cautelari: Sospensione dei Pagamenti e Contratti Pendenti

Le misure cautelari, a differenza delle protettive, sono atipiche e richiedono l’intervento giudiziale. In alcuni casi, è ammessa anche la sospensione dei pagamenti, inclusi quelli fiscali e tributari, come confermato dal Tribunale di Catania (2022), che ha applicato la sospensione a rapporti pendenti con il fisco assimilati a “contratti di diritto pubblico”. Tuttavia, questo orientamento solleva discussioni poiché manca un sinallagma diretto nel rapporto tributario. La sospensione dei pagamenti ai fornitori essenziali è invece considerata applicabile in via cautelare solo se il giudice conferma che il beneficio di continuità superi il pregiudizio per i creditori​.

In generale, le misure cautelari si distinguono in quanto non richiedono la ricerca di un equilibrio tra le parti, essendo finalizzate esclusivamente a garantire il buon esito delle trattative. Il giudice può, infatti, ordinare la sospensione di contratti o pagamenti anche senza garanzia di reciprocità tra le parti, con l’unico scopo di preservare il patrimonio aziendale e assicurare la continuità dell’attività​.

Modalità di Applicazione e Limiti

Le misure protettive e cautelari possono essere modificate o revocate su istanza del debitore, dell’esperto o, in caso di frode, su richiesta dei creditori (art. 55, co. 5). Inoltre, l’art. 19, co. 4, prevede che, per garantire un’equa partecipazione, le misure possano essere applicate selettivamente verso singoli creditori. Tale disposizione è rilevante poiché consente di modulare l’efficacia delle misure secondo le specifiche esigenze della trattativa di risanamento, senza estendere necessariamente gli effetti a tutti i creditori.

Orientamenti Giurisprudenziali Rilevanti

Numerose pronunce hanno consolidato l’applicazione delle misure protettive nella composizione negoziata. Ad esempio:

  • Tribunale di Milano (2023): ha affermato l’automaticità delle misure protettive dal momento della pubblicazione nel Registro delle Imprese, chiarendo che esse operano erga omnes a partire da tale data.
  • Tribunale di Padova (2022) e Tribunale di Salerno (2022): hanno confermato che le misure possono essere applicate in modo selettivo, se richiesto dal debitore, limitandone l’efficacia a determinati creditori o categorie di creditori​.

Conclusioni

Le misure protettive e cautelari introdotte dalla normativa sulla crisi d’impresa rappresentano strumenti essenziali per garantire la protezione del patrimonio aziendale e favorire il raggiungimento di un accordo tra le parti, evitando che azioni esecutive compromettano le trattative di risanamento. La giurisprudenza italiana ha confermato l’efficacia di queste misure, specialmente nel settore dei contratti essenziali e dei rapporti continuativi, consolidando un sistema di garanzie a tutela della continuità aziendale.

Questo quadro normativo consente un approccio bilanciato alla crisi d’impresa, proteggendo i creditori senza paralizzare le trattative, e incoraggiando soluzioni negoziate che evitino il fallimento.

Procacciatori d’affari e agenti di commercio: analisi normativa, giurisprudenziale e strategie preventive

Il contratto di procacciamento d’affari è una figura atipica nel panorama contrattuale italiano, priva di una regolamentazione specifica, ma legittimata dall’art. 1322 del Codice Civile, che consente alle parti di creare contratti atipici purché rispettino i limiti imposti dalla legge e perseguano interessi meritevoli di tutela.

Differenze essenziali tra procacciatore d’affari e agente di commercio

La distinzione tra procacciatore d’affari e agente di commercio è stata chiarita da numerose pronunce giurisprudenziali. Un elemento fondamentale che differenzia le due figure è la stabilità della prestazione. Secondo la Cassazione (Sez. Lavoro, 24.6.2005, n. 13629), l’attività dell’agente è caratterizzata da un obbligo contrattuale di promuovere affari, mentre il procacciatore agisce in modo occasionale, basando il proprio intervento sulla propria iniziativa senza alcun obbligo continuativo.

La giurisprudenza, tra cui la Corte d’Appello di Roma (Sez. lavoro, 11.11.2008), sottolinea come l’assenza di un obbligo giuridico stabilisca la differenza principale. La stabilità implica un impegno periodico e vincolante, diversamente dalla continuità, che può caratterizzare anche il rapporto con un procacciatore senza trasformarlo in un rapporto di agenzia.

Il quadro normativo

L’art. 69, comma 5-bis, del D.Lgs. n. 59/2010 specifica che l’attività di promozione delle vendite non rientra nella definizione di rapporto di agenzia se il collaboratore opera senza esclusiva di zona o vincoli di durata, e senza obblighi contrattuali di promozione. Questo distingue ulteriormente i procacciatori, i cui rapporti possono essere continuativi ma senza la “necessità giuridica” dell’obbligo di promozione.

Giurisprudenza e valutazioni di merito

Le corti italiane sono state chiamate a valutare situazioni in cui contratti etichettati come procacciamento d’affari sono stati in realtà interpretati come contratti di agenzia. Elementi quali la previsione di obiettivi di fatturato, termini di preavviso in caso di recesso, obblighi di partecipazione a fiere e provvigioni elevate possono indicare l’esistenza di un rapporto di agenzia, nonostante la forma contrattuale. La Cassazione (Sez. Lavoro, 8.8.1998, n. 7799) ha osservato che un rapporto può essere considerato di agenzia se mostra caratteristiche di coordinamento e continuità rilevanti ai sensi dell’art. 409, n. 3, c.p.c.

Implicazioni pratiche e prevenzione del contenzioso

Nel parere legale fornito, emerge l’importanza di fissare un tetto provvigionale annuo per prevenire la riqualificazione del rapporto in agenzia, suggerendo un limite di € 5.000,00 annui. Questa misura ha lo scopo di impedire che i collaboratori possano sostenere di aver acquisito diritti più ampi, come l’indennità di fine rapporto ex art. 1751 c.c. o la protezione previdenziale dell’Enasarco, che si applicano solo agli agenti.

Inoltre, è fondamentale che l’azienda eviti di introdurre clausole o pratiche che possano suggerire la presenza di obblighi giuridici di promozione. Elementi come partecipazione obbligatoria a eventi aziendali, relazioni periodiche obbligatorie o obiettivi contrattuali possono far scivolare il rapporto verso una qualificazione come agenzia, con tutte le implicazioni normative e contributive che ne derivano.

Conclusioni

La distinzione tra procacciatore d’affari e agente di commercio è sottile ma significativa. Per prevenire contenziosi e mantenere una chiara separazione tra le due figure, le aziende devono adottare accorgimenti precisi, tra cui l’imposizione di un tetto provvigionale e l’assenza di obblighi contrattuali vincolanti. La corretta gestione di questi contratti può salvaguardare le imprese da possibili rivendicazioni legali e assicurare conformità alle leggi e alla giurisprudenza vigente.

Pagamenti non autorizzati: tra la responsabilità dell’intermediario e l’onere del cliente

1. Introduzione

L’evoluzione digitale dei sistemi di pagamento, se da un lato agevola le transazioni economiche, dall’altro ha incrementato il rischio di frodi telematiche. L’accesso illegale ai conti online e il conseguente uso non autorizzato degli strumenti di pagamento elettronico pongono importanti questioni giuridiche, incentrate sul confine tra la responsabilità del prestatore di servizi di pagamento (Payment Service Provider, PSP) e l’onere di diligenza del cliente.

Il quadro normativo di riferimento è costituito dalla Direttiva 2007/64/CE (Payment Services Directive, PSD), recepita nell’ordinamento italiano con il D.Lgs. n. 11/2010 e successivamente integrata dalla Direttiva (UE) 2015/2366 (PSD2), attuata dal D.Lgs. n. 218/2017. La PSD2 ha riformato la disciplina dei pagamenti elettronici, introducendo requisiti di sicurezza più stringenti e rafforzando il regime probatorio a tutela del cliente, per garantire la sicurezza delle operazioni e la protezione dei dati personali.

2. Inquadramento normativo e principali riferimenti legislativi

La normativa di riferimento prevede un complesso sistema di ripartizione della responsabilità tra PSP e utente nei casi di operazioni di pagamento non autorizzate. In particolare, la disciplina è contenuta negli artt. 9-11 del D.Lgs. n. 11/2010, che disciplinano il regime di allocazione del rischio e degli oneri probatori.

L’art. 10, D.Lgs. n. 11/2010, stabilisce che in caso di un’operazione non autorizzata, il PSP è tenuto a rimborsare immediatamente il cliente, a meno che non riesca a dimostrare che quest’ultimo abbia agito con dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 12 del decreto. Questo principio si basa su un’inversione dell’onere della prova, non derogabile dalle parti e qualificabile come norma imperativa (cfr. art. 117 del TUB e art. 33 del Codice del Consumo).

Parallelamente, la PSD2 ha introdotto l’obbligo di “autenticazione forte del cliente” (Strong Customer Authentication – SCA), sancito dall’art. 97 della Direttiva (UE) 2015/2366 e recepito nell’ordinamento italiano dall’art. 10-bis del D.Lgs. n. 11/2010. Tale normativa prevede che l’identificazione del cliente avvenga mediante l’uso di almeno due elementi tra: conoscenza (qualcosa che l’utente sa, es. password o PIN), possesso (qualcosa che l’utente ha, es. token o OTP) e inerenza (qualcosa che caratterizza l’utente, es. dati biometrici).

3. Gli obblighi dell’intermediario e il ruolo della “diligenza dell’accorto banchiere”

L’art. 1176, comma 2, c.c., richiede al PSP di rispettare la diligenza professionale dell’accorto banchiere, tenendo conto della natura e del rischio dell’attività svolta. In questo senso, la giurisprudenza di legittimità ha consolidato l’obbligo in capo alla banca di adottare misure di sicurezza adeguate al livello di rischio, evolvendo contestualmente i propri sistemi di protezione in relazione alle tecniche di frode più sofisticate (Cass. civ., 23 dicembre 1993, n. 12761; Cass. civ., 18 dicembre 2015, n. 25442).

L’omessa adozione di misure preventive idonee a rilevare tempestivamente attività anomale sul conto corrente, come l’implementazione di sistemi di allerta in tempo reale, costituisce un inadempimento degli obblighi previsti dagli artt. 8 e 10 del D.Lgs. n. 11/2010. La giurisprudenza dell’Arbitro Bancario Finanziario (ABF) ha sancito che, in mancanza di tali misure, la responsabilità dell’intermediario è piena, anche se le credenziali di accesso sono state correttamente utilizzate (A.B.F. Collegio Milano, decisione n. 13267/2017).

4. L’onere probatorio: prova liberatoria e colpa grave del cliente

L’art. 10, comma 1, del D.Lgs. n. 11/2010 prevede che, in caso di contestazione, spetti all’intermediario dimostrare che l’operazione di pagamento è stata autenticata e che non vi sia stato alcun malfunzionamento nei sistemi di sicurezza. È dunque escluso che l’utente debba dimostrare la corretta custodia delle proprie credenziali, essendo sufficiente la mera allegazione dell’uso abusivo dello strumento di pagamento.

L’onere della prova a carico del PSP è stato confermato anche in giurisprudenza (Trib. Verona, 2 ottobre 2012), dove si è ribadito che l’istituto bancario è responsabile non solo se le credenziali sono state rubate a causa di un attacco informatico, ma anche quando non riesca a dimostrare che l’uso illecito è avvenuto per grave negligenza dell’utente, come la conservazione congiunta di PIN e carta di pagamento.

5. La prova della “colpa grave” del cliente: limiti e criteri interpretativi

La nozione di “colpa grave” dell’utente è stata oggetto di diverse interpretazioni. Secondo la Cassazione, la colpa grave ricorre nei casi in cui l’utente abbia agito con negligenza inescusabile, ad esempio non adottando misure minime di sicurezza (Cass. civ., 23 maggio 2016, n. 10638). In particolare, la Suprema Corte ha affermato che la conservazione del PIN unitamente alla carta costituisce un comportamento talmente imprudente da giustificare l’esclusione di ogni responsabilità del PSP.

Diversamente, la giurisprudenza dell’ABF ha recentemente sottolineato che la configurabilità della colpa grave non può dipendere da singoli comportamenti isolati, ma deve essere valutata nel contesto complessivo, tenendo conto del livello di diligenza che l’utente medio può ragionevolmente essere tenuto ad osservare (A.B.F. Collegio di Coordinamento, decisione n. 162/2017).

6. La giurisprudenza sulla responsabilità da status della banca

La giurisprudenza di legittimità e l’ABF hanno spesso richiamato la figura della “responsabilità da status” dell’intermediario, secondo la quale la banca, in virtù della sua posizione di operatore professionale, è gravata da un onere di diligenza particolarmente elevato (Cass. civ., 12 giugno 2007, n. 13777; Cass. civ., 8 gennaio 1997, n. 72). In tale ottica, il prestatore di servizi è tenuto a garantire un controllo continuo delle operazioni anomale, anche mediante il ricorso a tecniche di profilatura e strumenti di intelligenza artificiale, al fine di ridurre il rischio di frodi.

7. Conclusioni

Il quadro normativo e giurisprudenziale sui pagamenti non autorizzati pone in capo al PSP una responsabilità aggravata, che si riflette in un complesso sistema di riparto degli oneri probatori. Il cliente è tutelato da un regime di favore probatorio, ma è comunque tenuto a osservare i doveri di diligenza e di custodia previsti dalla normativa vigente. La tendenza della giurisprudenza sembra confermare una linea rigorosa nei confronti dell’intermediario, estendendo la sua responsabilità oltre il mero rispetto delle norme tecniche, fino a includere un obbligo di protezione proattivo e continuo.

Firme elettroniche (e digitale) a confronto

Le firme elettroniche rappresentano una componente essenziale per il funzionamento delle transazioni digitali, sia nel settore pubblico che privato. L’adozione di soluzioni sempre più tecnologiche ha permesso di accelerare la gestione documentale, garantendo non solo rapidità, ma anche sicurezza giuridica. Nel presente articolo analizzeremo il quadro normativo europeo e italiano che regola le firme elettroniche, le diverse tipologie esistenti e il loro valore probatorio.

Il quadro normativo europeo e italiano

Il principale riferimento normativo in Europa è il Regolamento eIDAS (Regolamento UE n. 910/2014), il quale stabilisce le condizioni per il riconoscimento giuridico delle firme elettroniche e ne definisce i requisiti per garantire l’affidabilità e l’integrità delle transazioni. In Italia, tali disposizioni trovano applicazione attraverso il Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD), introdotto con il D.Lgs. 82/2005, che stabilisce le modalità per la generazione e l’utilizzo delle firme elettroniche, avanzate e qualificate.

Uno degli aspetti fondamentali del Regolamento eIDAS è il principio sancito dall’articolo 25, secondo cui “una firma elettronica non può essere negata come prova in procedimenti giudiziali solo per la sua forma elettronica“. Questo garantisce la validità legale delle firme elettroniche, indipendentemente dal livello di sicurezza della firma utilizzata.

Le tipologie di firme elettroniche

Esistono diverse tipologie di firme elettroniche, che differiscono per complessità e valore giuridico. Tra le principali, troviamo:

  • Firma Elettronica Semplice (FES): La più basilare delle firme elettroniche, definita come un insieme di dati elettronici connessi a un documento elettronico. Non richiede specifici meccanismi di autenticazione e, di conseguenza, non fornisce una sicurezza elevata contro contestazioni sulla sua validità.
  • Firma Elettronica Avanzata (FEA): Questa tipologia garantisce una maggiore sicurezza rispetto alla FES, poiché soddisfa i requisiti dell’articolo 26 del Regolamento eIDAS. Deve essere univocamente collegata al firmatario e consentire la sua identificazione, oltre a garantire l’integrità dei dati firmati.
    Un esempio di FEA è la firma grafometrica, che acquisisce i dati biometrici dell’utente.
  • Firma Elettronica Qualificata (FEQ): Si tratta della forma più sicura di firma elettronica, equivalente a una firma autografa. La FEQ si basa su un certificato qualificato rilasciato da un prestatore di servizi fiduciari accreditato e deve essere creata tramite un dispositivo di firma sicuro (es. smart card o token USB).
  • Firma Digitale: In Italia, la firma digitale è un particolare tipo di firma elettronica qualificata che utilizza un sistema crittografico asimmetrico. Grazie alla coppia di chiavi crittografiche, una privata e una pubblica, la firma digitale garantisce sia l’integrità del documento che l’autenticità del firmatario.

Gli effetti giuridici delle firme elettroniche

Il valore giuridico e probatorio delle firme elettroniche varia a seconda del livello di sicurezza garantito. In particolare:

  • Firma Elettronica Semplice: Il giudice può valutarne la validità nel contesto specifico, ma non offre presunzioni di autenticità.
  • Firma Elettronica Avanzata: In ambito giuridico chiuso, come gli accordi tra parti che utilizzano lo stesso sistema, ha valore probatorio ai sensi dell’articolo 2702 c.c. Tuttavia, in caso di contestazione, è la parte che vuole avvalersene a dover dimostrare la conformità alle disposizioni normative.
  • Firma Elettronica Qualificata: Gode della presunzione di autenticità ex articolo 25 del Regolamento eIDAS e, in Italia, dell’articolo 2702 c.c. Essa garantisce pieno valore giuridico, essendo equiparata alla firma autografa.
  • Firma Digitale: Essendo una forma di FEQ, ne condivide gli effetti giuridici, offrendo un alto grado di sicurezza e presunzione di validità.

Le modalità di rilascio

Per ottenere una firma elettronica, avanzata o qualificata, il richiedente deve essere identificato in modo certo. Esistono diverse modalità di identificazione, tra cui l’identificazione de visu presso gli uffici preposti o tramite SPID, CIE o altri strumenti di identificazione elettronica riconosciuti.

In conclusione, la scelta della tipologia di firma elettronica dipende dalle necessità operative e giuridiche dell’utente. Le firme elettroniche qualificate e digitali offrono il massimo livello di sicurezza e riconoscimento legale, risultando ideali per contratti e documenti di rilevanza giuridica. Tuttavia, anche le firme elettroniche più semplici trovano impiego in ambiti meno formali, mantenendo comunque validità in contesti giudiziari.

Avviso di iscrizione a ruolo nel pignoramento presso terzi: la notifica deve essere effettuata entro e non oltre la data dell’udienza

Come noto l’art. 543, comma 5, c.p.c., come riformato, prevede che “il creditore, entro la data dell’udienza di comparizione indicata nell’atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione. La mancata notifica dell’avviso o il suo mancato deposito nel fascicolo dell’esecuzione determina l’inefficacia del pignoramento“.

In tale fattispecie la giurisprudenza di merito ritiene non trovi applicazione la c.d. scissione degli effetti della notifica.

Il Tribunale di Napoli Nord ha affrontato la questione con una pronuncia del 07.12.2023, ed ha affermato alcuni principi:
Data dell’udienza: Il termine perentorio si riferisce alla data indicata nell’atto di citazione iniziale e non a quella eventualmente posticipata per ragioni amministrative.
Natura Perentoria del Termine: La perentorietà del termine è giustificata dalla necessità di informare tempestivamente il terzo dell’avvenuta iscrizione a ruolo, per evitare l’immobilizzazione delle somme in caso di un pignoramento non iscritto a ruolo.
Effetti della Mancata Notifica: La sentenza stabilisce che la mancata o tardiva notifica dell’avviso al debitore e al terzo, così come il tardivo deposito dell’avviso, rendono inefficace il pignoramento.

Il Tribunale rileva che “la natura perentoria del termine si evince dalla ratio dell’istituto, che è quella di rendere avvertito il terzo, prima della udienza indicata in citazione, che si è effettivamente proceduto alla iscrizione a ruolo del procedimento, e questo per evitare la immobilizzazione di somme in virtù di un pignoramento poi non iscritto a ruolo; ciò detto, appare evidente che l’adempimento in questione deve essere compiutamente eseguito entro la suddetta data, con il perfezionamento della notifica al terzo non oltre tale momento” e “la funzione di “effettiva conoscenza della data di udienza” è infatti assicurata dall’atto di pignoramento e, dopo la relativa notifica, eventuali differimenti della udienza di comparizione sono comunicati alle parti nei modi previsti legge“.

In altri termini, pare doversi interpretare la norma in oggetto nel senso che la notifica dell’iscrizione a ruolo deve essersi perfezionata entro la data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento, e che si deve ottemperare all’obbligo di deposito della prova dell’avvenuta notifica entro tale data.

La pronuncia è in contrasto con il dato letterale della norma, e finisce col gravare indebitamente sul creditore procedente, il quale di fatto deve prevedere (cosa impossibile) i tempi della notifica.

Fattura elettronica e decreto ingiuntivo: aggiornamento giurisprudenziale

Se ne è già discusso in questo articolo : la fattura elettronica è sufficiente per agire in sede monitoria?

La sentenza emessa dal Tribunale ordinario di Verona, n. 10221/2019, affronta la validità della fattura elettronica come titolo idoneo per ottenere un decreto ingiuntivo.

Il caso riguarda la concessione di un decreto ingiuntivo richiesto da A. S.P.A. – Agenzia per il Lavoro, basato su un credito certo, liquido ed esigibile, comprovato da fatture elettroniche in formato XML. Il giudice, dott. Massimo Vaccari, ha esaminato se tali fatture possano essere considerate equipollenti all’estratto autentico delle scritture contabili, previsto dall’art. 634, comma 2, c.p.c.

Il provvedimento si basa su diverse disposizioni normative e tecniche:
1. Agenzia delle Entrate, Provvedimento n. 89757/2018: Stabilisce che la fattura elettronica è un file in formato XML, conforme alle specifiche tecniche dettagliate, che non contiene macroistruzioni o codici eseguibili in grado di modificare i dati rappresentati;
2. D.Lgs. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale): Definisce il duplicato informatico come un documento informatico che riproduce esattamente la sequenza di valori binari del documento originario, rendendolo autentico e immodificabile.

Secondo il giudice, le fatture elettroniche in formato XML possono essere equiparate all’estratto autentico delle scritture contabili. Questa conclusione è supportata dal fatto che il Sistema di Interscambio (SDI) genera documenti informatici che sono considerati duplicati autentici, indistinguibili dagli originali, e non semplici copie.

Il giudice sottolinea che i soggetti obbligati ad emettere fatture elettroniche tramite SDI sono esonerati dall’obbligo di annotazione nei registri di cui agli artt. 23 e 25 del D.P.R. 633/1972. Di conseguenza, per tali soggetti, viene meno anche l’obbligo di tenere le scritture contabili richieste dall’art. 634, comma 2, c.p.c., per l’ottenimento del decreto ingiuntivo. Questo rende illogico mantenere l’obbligo di presentare estratti autentici delle scritture contabili.

Il tribunale ha quindi emesso un decreto ingiuntivo a favore di A. S.P.A., ordinando a B S.R.L. di pagare immediatamente la somma di € 24.372,88, gli interessi e le spese di procedura, e ha autorizzato la provvisoria esecuzione del decreto stesso.

Questa sentenza stabilisce un precedente significativo per l’uso delle fatture elettroniche come prova scritta del credito nei procedimenti di ingiunzione. I professionisti legali devono tener conto che le fatture elettroniche in formato XML, se emesse secondo le normative tecniche stabilite, sono sufficienti per ottenere un decreto ingiuntivo senza necessità di ulteriori documentazioni contabili autentiche.

Riferimenti Normativi:
– Art. 633 c.p.c.: Condizioni per l’ingiunzione
– Art. 634 c.p.c.: Prova scritta del diritto
– D.Lgs. 82/2005 (CAD): Codice dell’Amministrazione Digitale
– D.Lgs. 127/2015: Disposizioni sulla fatturazione elettronica
– D.P.R. 633/1972: Disciplina dell’IVA e obblighi contabili.

La rivalutazione ISTAT dell’assegno di mantenimento per coniuge e figli: normativa, procedura e giurisprudenza

La rivalutazione monetaria dell’assegno di mantenimento è un meccanismo essenziale per garantire che il valore reale della somma versata non venga eroso dall’inflazione nel corso del tempo. In questo articolo esaminiamo la normativa di riferimento, la procedura per l’adeguamento degli assegni di mantenimento e le principali considerazioni giurisprudenziali in merito.

Normativa di riferimento
Legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio)
– Articolo 5, comma 7: Introduce il diritto all’adeguamento dell’assegno di mantenimento stabilito in caso di divorzio.
– Modificato dall’articolo 10 della legge n. 74 del 6 marzo 1987: Specifica l’adeguamento in base alle variazioni del costo della vita.
Codice Civile
– Articolo 156: Prevede la possibilità di richiedere l’aggiornamento dell’assegno di mantenimento in caso di separazione giudiziale.
– Articolo 337-ter: Riguarda gli obblighi di mantenimento dei figli, tenendo conto del loro interesse superiore.

Giurisprudenza
La Corte di Cassazione estende per analogia la disposizione sull’adeguamento dell’assegno di mantenimento anche agli assegni stabiliti in caso di separazione, pur in assenza di una disposizione specifica.

Procedura per l’adeguamento
1. Determinazione del tasso di inflazione: identificare il tasso di inflazione annuale comunicato dall’ISTAT per l’anno di riferimento. Questi dati sono disponibili sul sito dell’ISTAT o nei bollettini mensili pubblicati dall’Istituto.
2. Calcolo dell’Incremento: applicare il seguente procedimento matematico: moltiplicare l’importo attuale dell’assegno di mantenimento per il tasso di inflazione ISTAT (espresso in percentuale). Il risultato rappresenterà l’incremento in cifra assoluta da sommare all’importo originale dell’assegno. Esempio: Se l’assegno è di 1000 euro e l’inflazione è del 2.5%, l’incremento sarà di 25 euro (1000 * 2.5%). L’importo aggiornato sarà quindi di 1025 euro.

Considerazioni Giuridiche
a) Assenza di previsione nell’accordo o sentenza: anche se la rivalutazione monetaria dell’assegno non è specificamente menzionata nel provvedimento di separazione o divorzio, la prassi giurisprudenziale tende a considerarla implicita per garantire che l’assegno continui a soddisfare i bisogni del coniuge e dei figli nel tempo. La Corte di Cassazione ha affermato che l’aggiornamento dell’assegno dovrebbe essere considerato un principio implicito, volto a preservarne la funzione assistenziale;
b) Limitazione della rivalutazione ISTAT: le parti possono decidere di escludere o limitare l’adeguamento ISTAT tramite accordi espliciti. Tuttavia, tale rinuncia deve essere chiaramente dichiarata e non deve compromettere la capacità dell’assegno di fornire il necessario supporto finanziario;
c) Prescrizione del Diritto agli Arretrati: le rate degli assegni di mantenimento sono soggette a prescrizione quinquennale secondo il codice civile italiano. Ciò significa che il beneficiario ha un limite massimo di cinque anni dalla data in cui l’adeguamento avrebbe dovuto avvenire per richiedere i pagamenti arretrati non ricevuti a causa della mancata rivalutazione.

Conclusioni
L’aggiornamento e l’adeguamento dell’assegno di mantenimento in base agli indici ISTAT rappresentano uno strumento fondamentale per garantire che il sostegno finanziario fornito mantenga nel tempo il suo valore reale, rispondendo alle mutevoli esigenze economiche dei coniugi e dei figli. La normativa italiana, supportata dalla prassi giurisprudenziale, assicura che gli assegni siano adeguati periodicamente per tutelare i diritti e gli interessi dei beneficiari. È importante rispettare i termini di prescrizione per richiedere eventuali arretrati e considerare attentamente le clausole contrattuali per garantire un adeguato sostegno finanziario nel contesto delle relazioni familiari.

La riforma Cartabia e l’art. 473-bis.12: novità normative e applicazione pratica. L’allegazione degli estratti conto

La Riforma Cartabia
La Riforma Cartabia (D. Lgs. 10 ottobre 2022 n. 149) ha apportato significative modifiche alla procedura civile, in particolare per quanto riguarda le controversie familiari. Un cambiamento di rilievo è l’introduzione del “Titolo IV-bis, Norme per il procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie”, che aggiunge 72 nuovi articoli, numerati dall’art. 473-bis all’art. 473-bis.71. Queste nuove disposizioni mirano a rendere il sistema giudiziario più efficiente e trasparente. L’Art. 473-bis.12 e le Sue Implicazioni Tra le innovazioni introdotte, l’art. 473-bis.12, intitolato “Forma della domanda“, stabilisce che in caso di domande di contributo economico o in presenza di figli minori, al ricorso devono essere allegati:
i) le dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni;
ii) la documentazione attestante la titolarità di diritti reali su beni immobili e beni mobili registrati, nonché di quote sociali;
iii) gli estratti conto dei rapporti bancari e finanziari relativi agli ultimi tre anni. Questa disposizione rappresenta un cambiamento significativo rispetto alla normativa precedente, che richiedeva solo la produzione delle dichiarazioni dei redditi. La nuova richiesta di allegare estratti conto bancari e finanziari solleva importanti questioni di privacy e protezione dei dati personali, ponendo dubbi sul rispetto del principio di minimizzazione dei dati sancito dal GDPR.

Criticità
L’obbligo di fornire estratti conto dettagliati può compromettere la riservatezza dei genitori coinvolti nei procedimenti, esponendo informazioni sensibili non sempre rilevanti per la causa. La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha ribadito che la produzione di documenti contenenti dati personali in un procedimento giudiziario rientra nell’ambito di applicazione del GDPR, e ogni trattamento di dati deve soddisfare condizioni di liceità, necessità e proporzionalità.

Il Decreto del Tribunale di Verona del 16 marzo 2023
Il decreto del Tribunale Civile e Penale di Verona, datato 16 marzo 2023, esamina un ricorso presentato da Tizia contro Caio, introdotto nelle forme del rito camerale ma privo dei requisiti di contenuto e della documentazione richiesti dall’art. 473-bis.12 del Codice di Procedura Civile. Il ricorso, depositato dopo l’entrata in vigore della riforma, è stato ritenuto inammissibile per mancanza delle allegazioni e delle prove documentali necessarie.

Il Presidente f.f., Dott. Massimo Vaccari, ha evidenziato che la mancanza dei requisiti previsti non può essere sanata nel prosieguo del procedimento, rendendo il ricorso destinato ad essere dichiarato inammissibile. La decisione di inammissibilità può essere pronunciata solo con sentenza, in conformità al nuovo rito introdotto dalla riforma. Nonostante il procedimento fosse stato iscritto dalla cancelleria nel ruolo della volontaria giurisdizione, il tribunale ha ritenuto che ciò non influenzi la scelta della disciplina da applicarsi, che deve essere conforme al nuovo rito unico di famiglia.

Conclusioni
La Riforma Cartabia introduce importanti innovazioni nella procedura civile per le controversie familiari, ma l’obbligo di allegare estratti conto bancari e finanziari solleva preoccupazioni significative in termini di privacy e protezione dei dati personali. Il decreto del Tribunale di Verona del 16 marzo 2023 sottolinea l’importanza di conformarsi ai nuovi requisiti normativi per evitare l’inammissibilità dei ricorsi, evidenziando un approccio più strutturato e formale nella gestione delle controversie familiari. Un intervento del legislatore potrebbe essere necessario per garantire che la tutela giurisdizionale non comprometta immotivatamente la riservatezza delle parti coinvolte.

crediti ereditari e conto corrente: la Cassazione ribadisce il diritto dei coeredi alla riscossione pro quota senza consenso unanime

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 27417 del 20 novembre 2017, ha confermato che ogni coerede ha il diritto di riscuotere la propria quota di crediti ereditari senza il consenso degli altri coeredi. Questo principio è fondamentale nella gestione dei conti correnti e dei conti deposito cointestati a seguito del decesso di uno dei titolari.

Contesto e Fatti di Causa
Dopo la morte di C.A., le eredi T.V., C.E. e R. hanno richiesto a Intesa Sanpaolo S.p.A. il prelievo delle somme depositate su conti cointestati. La banca ha opposto un rifiuto, adducendo la necessità del consenso di tutti i coeredi, e ha proceduto autonomamente all’acquisto di nuovi titoli.

Giudizio di Primo Grado e Appello
Il Tribunale di Venezia ha riconosciuto la comunione ereditaria sul 50% del saldo dei conti, condannando la banca e il coerede dissenziente al risarcimento. La Corte d’Appello ha invece riformato la sentenza, rigettando la domanda delle eredi e condannandole al rimborso delle spese legali.

Principi di Diritto
Richiamando la sentenza delle Sezioni Unite n. 24567/2007, la Cassazione ha chiarito che i crediti ereditari rientrano nella comunione e devono essere divisi tra i coeredi. Tuttavia, ciascun coerede ha il diritto di riscuotere la propria quota senza necessità del consenso degli altri, evitando così un litisconsorzio necessario.

Accogliendo il ricorso delle eredi, la Cassazione ha stabilito che la riscossione della quota di credito ereditario può essere effettuata anche da un solo coerede, senza il consenso degli altri. La sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Venezia per un nuovo esame. Questa decisione rappresenta un’importante conferma del diritto dei coeredi alla gestione autonoma delle proprie quote di crediti ereditari, semplificando le procedure di riscossione e garantendo una maggiore tutela dei diritti successori.

La sentenza n. 27417/2017 della Cassazione offre un chiarimento significativo sulla gestione dei crediti ereditari, affermando il diritto di ciascun coerede alla riscossione della propria quota indipendentemente dal consenso degli altri. Questo principio è cruciale per una corretta amministrazione delle successioni e per la tutela degli interessi individuali dei coeredi.

Il reclamo avverso i decreti emessi dal giudice tutelare

Il Contesto Normativo del Giudice Tutelare Il giudice tutelare opera secondo quanto definito nel Libro I del Codice Civile, artt. 357-432, che delineano i compiti e le responsabilità in relazione alla tutela di minori e adulti non autosufficienti. Il suo ruolo è cruciale per garantire la protezione legale e gestionale di questi soggetti.

I decreti emessi dal giudice tutelare sono finalizzati a decisioni rapide in situazioni che non tollerano ritardi, come l’amministrazione dei beni o le decisioni sanitarie urgenti. Questi decreti hanno base legale nel Codice di Procedura Civile e devono sempre rispettare i principi di capacità e necessità come delineati nel Codice Civile.

Reclamo: Procedura e Finalità Il reclamo, disciplinato dall’art. 739 cpc, è progettato per assicurare che anche le decisioni rapide del giudice tutelare possano essere soggette a revisione. Questo strumento processuale è essenziale per mantenere un equilibrio tra efficienza decisionale e diritti processuali.

In particolare, l’art. 739 cpc permette il reclamo contro i decreti del giudice tutelare che impattano significativamente sulla gestione della tutela o degli affari del tutelato. Il reclamo deve essere presentato entro 10 giorni dalla comunicazione del decreto e viene trattato con procedura sommaria per garantire una risoluzione tempestiva.

Riferimenti Giurisprudenziali La Corte di Cassazione ha più volte sottolineato l’importanza di una revisione giuridica efficace nei casi di decisioni prese dal giudice tutelare, stabilendo standard per la corretta applicazione del reclamo, come illustrato nella sentenza n. 1124/2018, che ha ribadito l’esigenza di motivazione dettagliata nei decreti impugnabili.

Conclusione L’articolo 739 del Codice di Procedura Civile svolge un ruolo fondamentale nel sistema giuridico italiano, garantendo che le decisioni del giudice tutelare possano essere esaminate e contestate attraverso il reclamo. Questo meccanismo di salvaguardia è vitale per la protezione dei diritti dei soggetti più vulnerabili nella società.

Mediazione & Condominio post Cartabia: cosa cambia

La riforma Cartabia ha introdotto significative novità nel panorama della mediazione condominiale, modificando l’approccio alle controversie in questo ambito. Questo articolo mira a fornire un’analisi delle modifiche apportate dalla riforma, con particolare attenzione alle implicazioni pratiche per i condomini e gli amministratori di condominio.

1. Contesto Normativo Pre-Riforma

Prima dell’introduzione della riforma Cartabia, le controversie condominiali erano regolate dall’articolo 71-quater delle disposizioni di attuazione del codice civile. Questo articolo stabiliva che determinate controversie condominiali dovessero essere sottoposte a un procedimento di mediazione prima di poter essere portate davanti a un giudice. Le controversie in questione erano quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione delle disposizioni relative al condominio previste dal codice civile e dalle relative disposizioni di attuazione. L’amministratore di condominio per avviare o partecipare ad una mediazione doveva preliminarmente avere l’approvazione da parte dell’assemblea.

2. La Riforma Cartabia e le Novità Introdotti

La riforma Cartabia, attraverso il decreto legislativo 149/2022, ha apportato modifiche sostanziali all’articolo 71-quater, con l’obiettivo di semplificare e rendere più efficace il procedimento di mediazione nelle controversie condominiali. Le principali novità introdotte dalla riforma possono essere sintetizzate come segue:

  • Abrogazione e Modifica: I commi 2, 4, 5 e 6 dell’articolo 71-quater sono stati abrogati, mantenendo in vigore il solo comma 1 che definisce l’ambito di applicabilità della mediazione condominiale. Il comma 3 è stato novellato con un rinvio all’articolo 5-ter del decreto legislativo n. 28/2010, che regola la legittimazione dell’amministratore di condominio nel procedimento di mediazione.
  • Legittimazione dell’Amministratore di Condominio: L’articolo 5-ter introduce una novità significativa, stabilendo che l’amministratore del condominio è legittimato ad attivare, aderire e partecipare al procedimento di mediazione. Questo rappresenta un cambiamento importante, poiché prima della riforma, l’amministratore necessitava di una delibera assembleare per poter agire in tal senso.
  • Approvazione dell’Assemblea Condominiale: Il verbale contenente l’accordo di conciliazione o la proposta conciliativa del mediatore deve essere approvato dall’assemblea condominiale entro un termine fissato, con le maggioranze previste dall’articolo 1136 del codice civile. In caso di mancata approvazione, la conciliazione si intende non conclusa.

3. Criticità e Considerazioni Pratiche

Nonostante l’intento semplificativo della riforma, l’introduzione dell’articolo 5-ter ha sollevato alcune criticità, soprattutto per quanto riguarda la pratica applicazione delle nuove disposizioni. Una delle principali preoccupazioni riguarda la legittimazione dell’amministratore a intraprendere il procedimento di mediazione senza una previa delibera assembleare, una scelta che potrebbe creare tensioni all’interno del condominio, soprattutto in assenza di un consenso chiaro sui passi da seguire.

Inoltre, la formulazione generica relativa alle maggioranze richieste per l’approvazione dell’accordo di conciliazione o della proposta conciliativa potrebbe generare incertezze, rendendo necessaria un’interpretazione attenta delle norme per evitare conflitti o malintesi.

4. Entrata in Vigore e Applicabilità

Le disposizioni introdotte dalla riforma Cartabia sono entrate in vigore il 30 giugno 2023. È importante notare che ai procedimenti pendenti alla data del 30 giugno 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti, mentre le nuove norme si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data.

Conclusione

La riforma Cartabia rappresenta un passo importante verso la semplificazione e l’efficacia del procedimento di mediazione nelle controversie condominiali. Tuttavia, le novità introdotte richiedono un’attenta valutazione sia da parte degli amministratori di condominio che dei condomini, per garantire che il nuovo processo di mediazione sia gestito in modo efficace e consensuale. Sarà fondamentale monitorare l’applicazione pratica delle nuove disposizioni per valutare l’impatto della riforma sulle dinamiche condominiali e, se necessario, apportare ulteriori modifiche per risolvere eventuali criticità emerse.

Post riforma cartabia è richiesta la presenza personale delle parti alla prima udienza nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo vanti il giudice di pace?

Premessa

La questione posta riguarda l’obbligatorietà della presenza personale delle parti nel corso della prima udienza di opposizione a decreto ingiuntivo davanti al Giudice di Pace. La normativa di riferimento per tale procedura è articolata e richiede un’analisi accurata per comprendere le disposizioni applicabili al caso specifico.

Analisi Normativa

Il Codice di Procedura Civile italiano disciplina il procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo attraverso una serie di norme che differiscono a seconda che il procedimento si svolga davanti al Tribunale o al Giudice di Pace.

Opposizione a Decreto Ingiuntivo davanti al Tribunale: L’articolo 183, primo comma, del Codice di Procedura Civile (CPC) stabilisce che, nel processo davanti al Tribunale, “all’udienza fissata per la prima comparizione e la trattazione le parti devono comparire personalmente“. Questa disposizione mira a garantire che le parti siano adeguatamente informate sullo stato e sulle vicende del processo, consentendo loro di partecipare attivamente alla discussione della causa.

Opposizione a Decreto Ingiuntivo davanti al Giudice di Pace: Per quanto riguarda il procedimento davanti al Giudice di Pace, l’articolo 316 CPC rimanda all’applicazione del “nuovo procedimento semplificato di cognizione” disciplinato dall’articolo 281-duodecies CPC. Quest’ultimo introduce un regime procedurale semplificato per alcune categorie di cause, tra cui quelle di competenza del Giudice di Pace, con l’obiettivo di accelerare la trattazione delle cause e ridurre i costi del contenzioso.

Importante notare è che, nel dettaglio del procedimento semplificato di cognizione previsto dall’articolo 281-duodecies CPC, non vi è un richiamo esplicito all’obbligo di comparizione personale delle parti previsto dall’articolo 183 CPC per il processo davanti al Tribunale.

Si ritiene che resti salva la possibilità del Giudice di provvedere diversamente.

Conclusione

Alla luce dell’analisi normativa sopra esposta, si può concludere che nel caso di opposizione a decreto ingiuntivo davanti al Giudice di Pace, non è richiesta la presenza personale delle parti alla prima udienza.

Ovviamente data la novità normativa, vi saranno sicuramente commenti dottrinali in merito e pronunce di merito che chiariranno la questione.

Note a Cass. Civ. Sez. II Sent. n. 24012/2022: decorrenza del termine per la comunicazione dei dati del conducente in caso di violazione al Codice Della Strada

La sentenza n° 24012 del 2022 della Corte di Cassazione riguarda un caso di violazione del codice della strada. Il ricorrente era stato sanzionato per non aver fornito, entro 60 giorni, i dati personali e della patente di guida del conducente del suo veicolo, che era stato sanzionato per un’infrazione al codice della strada, senza che fosse stato identificato l’autore della violazione.

Il Giudice di pace di Bari aveva inizialmente accolto il ricorso, dichiarando nullo il verbale della Polizia Municipale di Sannicandro di Bari. Tuttavia, il Tribunale di Bari, decidendo sull’appello proposto dal Comune di Sannicandro Bari, aveva accettato il gravame e rigettato l’opposizione contro il verbale di accertamento.

Il cittadino presentò ricorso per cassazione, sostenendo che il termine per la comunicazione dei dati del conducente decorresse dalla definizione dell’opposizione avverso il verbale di accertamento dell’infrazione e non dalla notifica del verbale stesso. Sosteneva inoltre che il verbale di accertamento conteneva l’avvertimento che l’obbligo di comunicazione dei dati sarebbe decorso in caso di ricorso avverso il verbale dalla data di notifica del provvedimento con cui sarebbero stati definiti i rimedi giurisdizionali o amministrativi previsti dalla legge.

La Corte di Cassazione, dopo aver considerato i vari motivi del ricorso e gli argomenti della difesa, accolse i primi tre motivi del ricorso di Bevilacqua. La Corte aderì all’orientamento secondo cui il termine per la comunicazione dei dati del conducente non decorre dalla notifica del verbale di accertamento dell’infrazione, ma dalla definizione dei procedimenti giurisdizionali o amministrativi proposti avverso il verbale relativo alla precedente infrazione. In sostanza, la Corte di Cassazione stabilì che, fino alla definizione dei procedimenti giurisdizionali o amministrativi, il destinatario dell’invito non è tenuto a fornire i dati richiesti.

In definitiva, la sentenza fu cassata e il caso rinviato al Tribunale di Bari per una nuova decisione in linea con il principio di diritto stabilito dalla Corte di Cassazione.

È possibile presentare un ricorso per la nomina di un amministratore di sostegno da parte del diretto interessato?

In Italia, la figura dell’amministratore di sostegno rappresenta un importante strumento giuridico volto a tutelare le persone parzialmente o totalmente incapaci di curare i propri interessi a causa di infermità o disabilità.

Normativa di Riferimento

La normativa che regola l’amministrazione di sostegno è contenuta negli articoli 404-413 del Codice Civile, introdotti con la Legge n. 6/2004. Questa normativa si inserisce nel più ampio contesto dei diritti delle persone con disabilità, mirando a garantire la loro protezione e autonomia.

Chi può Presentare il Ricorso

Il ricorso per la nomina di un amministratore di sostegno può essere presentato da diverse figure:

Diretto Interessato: La persona che necessita di sostegno può autonomamente presentare il ricorso.

Altri Soggetti: Parenti o affini entro il quarto grado, coniuge, partner in unione civile, convivente, tutore, curatore, pubblico ministero o altri soggetti interessati.

Presupposti per la Nomina

La nomina di un amministratore di sostegno si basa su specifici presupposti:

Incapacità: La persona deve essere incapace, anche solo parzialmente, di gestire i propri interessi.

Necessità di Protezione: Deve essere evidente la necessità di un sostegno per la tutela dei diritti e la gestione degli interessi dell’interessato.

Procedura di Nomina

Presentazione del Ricorso: Il ricorso va presentato al tribunale competente, ovvero il luogo di residenza o di domicilio dell’interessato.

Valutazione del Tribunale: Il giudice tutelare valuta il caso, ascoltando l’interessato e acquisendo informazioni necessarie.

Decisione e Nomina: In base alla valutazione, il tribunale decide sulla nomina e definisce i compiti specifici dell’amministratore.

Considerazioni Finali

L’amministrazione di sostegno in Italia si caratterizza per la sua natura personalizzata, adattandosi alle esigenze specifiche dell’interessato. La possibilità di revisione e modifica da parte del tribunale garantisce un adeguamento continuo alle condizioni dell’interessato.

L’amministratore di sostegno rappresenta una figura chiave nel diritto civile italiano, essenziale per garantire la tutela e l’autonomia delle persone con disabilità o infermità. La sua nomina, regolata da una normativa specifica e interpretata attraverso la giurisprudenza, richiede un’attenta valutazione e un approccio personalizzato, testimoniando l’impegno del sistema legale italiano verso la protezione dei diritti delle persone più vulnerabili.

Tutto ciò premesso si può con certezza rispondere affermativamente al quesito circa la possibilità che il diretto interessato possa proporre un ricorso per la nomina in suo favore di un amministratore di sostegno.

Cass. civ. n. 2756/2023 – amministrazione di sostegno e capacità di agire

La sentenza della Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Civile, numero 2756/2023, registrata sotto il numero generale 27773/2023 e pubblicata il 02/10/2023, tratta di un caso di amministrazione di sostegno in corso di causa. La sentenza è stata presieduta dal dott. Felice Manna e la relazione è stata svolta dal consigliere Linalisa Cavallino.

Fatti di Causa: Il caso ha inizio con un atto di citazione notificato il 13.12.2000, dove il ricorrente dichiara di essere proprietario di un appartamento e di aver anticipato le spese per lavori di ristrutturazione urgenti a seguito di un sisma nel 1995, spese che non erano state rimborsate dalla convenuta. La convenuta si costituì in giudizio contestando la richiesta.

Durante il corso del giudizio, il processo fu interrotto perché la convenuta era stata nominata beneficiaria della amministratore di sostegno dal Tribunale di Roma con sentenza del 13.5.2005. Questo amministratore aveva il potere concorrente con la beneficiaria per quanto riguardava l’ordinaria amministrazione e la vita personale, mentre aveva potere sostitutivo per tutti gli altri atti.

Il processo fu riassunto e la convenuta si costituì con l’amministratore di sostegno. Il Tribunale di Lucera, con sentenza n.196/2009, rigettò la domanda dell’attore e lo condannò alla rifusione delle spese processuali.

Ricorso e Appello: Il ricorrente propose appello presso la Corte d’appello di Bari, con atto di citazione notificato il 30.6.2010.

Commento Tecnico: La sentenza in esame si concentra sulla procedura di amministrazione di sostegno in corso di causa civile. Dal punto di vista tecnico-giuridico, il caso solleva questioni relative alla gestione dei beni e degli interessi di una persona beneficiaria di un amministratore di sostegno, in particolare in relazione ai poteri di rappresentanza e di gestione dell’amministratore rispetto agli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione.

La sentenza del Tribunale di Roma che ha nominato l’amministratore di sostegno ha creato una situazione in cui i poteri dell’amministratore sono concorrenti o sostitutivi a quelli della beneficiaria, a seconda della natura dell’atto. Questo ha implicazioni significative per il proseguimento del processo civile, poiché determina chi ha la capacità di agire in giudizio e di compiere atti giuridici rilevanti per la causa.

Il caso evidenzia l’importanza di considerare lo status giuridico delle parti in un processo civile, in particolare quando una delle parti è soggetta a misure di protezione come l’amministrazione di sostegno.

In conclusione, la sentenza richiama l’attenzione sull’interazione tra le procedure di amministrazione di sostegno e il diritto processuale civile, sottolineando la necessità di un’attenta valutazione dei poteri e delle capacità processuali dell’amministratore di sostegno e del beneficiario.

Cass. civ sez. I, n.1667 del 19.01.2023 – l’audizione del beneficiario per la verifica dei suoi effettivi interessi

La sentenza della Corte di Cassazione civile sez. I, n. 1667 del 19 gennaio 2023, si occupa di una questione relativa all’amministrazione di sostegno, con particolare attenzione all’audizione personale del beneficiario e alla scelta dell’amministratore di sostegno.

Fatti di Causa: Il caso riguarda la richiesta di interdizione di una donna, B.M.T., per infermità mentale, avanzata dal padre e opposta dalla madre. Il tribunale aveva rigettato la richiesta di interdizione e aveva nominato un amministratore di sostegno esterno alla famiglia, in considerazione del clima di conflitto tra i genitori. La madre, D.L.G.I., aveva presentato reclamo contro questa decisione, sostenendo che la figlia avesse espresso il desiderio di avere lei come amministratrice di sostegno e lamentando la mancata audizione della figlia nel procedimento di amministrazione di sostegno e la privazione della possibilità per la figlia di compiere atti di ordinaria amministrazione.

Ragioni della Decisione: La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso della madre principalmente sulla base del primo motivo, relativo alla mancata audizione della beneficiaria. La Corte ha sottolineato l’importanza dell’audizione personale del beneficiario dell’amministrazione di sostegno come adempimento essenziale, in linea con la dignità della persona e funzionale all’accertamento dei presupposti dell’istituto dell’amministrazione di sostegno. La Corte ha evidenziato che l’audizione è necessaria per valutare le condizioni psicofisiche attuali del beneficiario e per adottare provvedimenti adeguati alle sue esigenze.

La Corte ha ritenuto che la mancata audizione della beneficiaria fosse un errore procedurale significativo, in quanto l’audizione precedente era avvenuta in un contesto diverso (procedimento di interdizione) e non poteva sostituire l’audizione specifica per l’amministrazione di sostegno. Inoltre, la Corte ha osservato che la volontà della beneficiaria, espressa in una lettera, non era stata adeguatamente considerata e che non erano state fornite prove sufficienti per giustificare la scelta di un amministratore di sostegno esterno alla famiglia.

Conclusioni La decisione della Corte di Cassazione si inserisce nel solco dei principi giuridici che tutelano i diritti delle persone con disabilità, in particolare quelli derivanti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con disabilità. La sentenza enfatizza il diritto alla partecipazione personale e diretta del beneficiario nel procedimento che lo riguarda, nonché il rispetto della sua volontà e preferenze.

Dal punto di vista tecnico-giuridico, la sentenza ribadisce l’importanza dell’audizione personale come garanzia procedurale fondamentale e come strumento per la valutazione adeguata e personalizzata delle esigenze del beneficiario. Inoltre, la decisione sottolinea il principio secondo cui la scelta dell’amministratore di sostegno deve essere guidata dall’interesse del beneficiario e dalla necessità di evitare conflitti di interesse, e che tale scelta deve essere adeguatamente motivata e basata su prove concrete.

La sentenza rappresenta un importante precedente per la tutela dei diritti delle persone con disabilità e per l’interpretazione delle norme relative all’amministrazione di sostegno, confermando l’importanza di un approccio centrato sulla persona e sulle sue capacità residue.

La Cessione del Contratto Preliminare di Compravendita Immobiliare: Aspetti Legali e Fiscali

La cessione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare è un’operazione giuridica che consente al promissario acquirente (cedente) di trasferire a un terzo (cessionario) la propria posizione contrattuale. Questo processo comporta il trasferimento di tutti i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto preliminare stipulato con il promissario venditore.

Aspetti Legali della Cessione

Dal punto di vista legale, la cessione del contratto preliminare è disciplinata dal Codice Civile Italiano e può essere soggetta a specifiche condizioni contrattuali:

Consenso del Venditore: Sebbene la giurisprudenza (Cassazione civile, sez. II, sentenza 28.07.2006 n. 16877) abbia chiarito che non è necessario il consenso del venditore per la cessione del contratto, salvo diversa pattuizione contrattuale, è prassi comune notificare al venditore la cessione.

Responsabilità del Cedente: Il cedente può rimanere responsabile per l’adempimento delle obbligazioni contrattuali, a meno che non sia esonerato da tale responsabilità nell’atto di cessione.

Forma dell’Atto di Cessione: La cessione deve essere effettuata mediante atto scritto, che può richiedere la forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata (Art. 1350 del Codice Civile), in particolare se il contratto preliminare è stato stipulato in tale forma.

Aspetti Fiscali della Cessione

La cessione del contratto preliminare comporta anche obbligazioni fiscali:

Imposta di Registro: La cessione è soggetta all’imposta di registro in misura fissa di 200 euro se avviene entro tre anni dalla stipula del contratto preliminare (Art. 1 della Tariffa, Parte Prima, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131).

IVA: Se il cedente è un soggetto IVA, la cessione potrebbe essere soggetta a IVA (Art. 10 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633).

Imposte Indirette: Potrebbero essere dovuti anche l’imposta ipotecaria e l’imposta catastale, in misura fissa se la cessione avviene entro tre anni.

Plusvalenza: Eventuali plusvalenze realizzate dal cedente privato possono essere soggette a tassazione come reddito diverso (Art. 67 del TUIR).

Raffronto con l’Indicazione di un Terzo Acquirente

La cessione del contratto preliminare deve essere distinta dall’indicazione di un terzo acquirente. Mentre la cessione comporta un trasferimento di diritti e obblighi, l’indicazione di un terzo acquirente non implica un trasferimento diretto di tali diritti e obblighi. Secondo gli articoli 1401 e 1402 del Codice Civile, l’indicazione di un terzo (c.d. electio amici) può configurarsi come una nuova offerta al venditore, che, se accettata, porta alla conclusione di un nuovo contratto con il terzo indicato. In questo caso, il cedente originario potrebbe negoziare una commissione o un premio per aver facilitato la transazione, ma non sarà più parte del contratto preliminare originale.

Conclusioni

La cessione di un contratto preliminare di compravendita immobiliare è una pratica comune che richiede attenzione ai dettagli legali e fiscali. È essenziale valutare attentamente le condizioni del contratto preliminare, le possibili implicazioni fiscali e la necessità di redigere un atto di cessione che tuteli le parti coinvolte.

Imputato sottoposto ad amministrazione di sostegno e il proprio diritto di nominare un difensore di fiducia

Il tema è stato recentemente affrontato da due sentenze della Corte di Cassazione Penale che si vanno ad analizzare sinteticamente.

Corte di Cassazione Penale, Sezione III, Sentenza 25 gennaio 2018, n. 3659 – Pres. Rosi; Rel. Scarcella
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 3659 del 25 gennaio 2018, ha affrontato la questione della nomina del difensore di fiducia da parte dell’amministratore di sostegno di un imputato. La Corte ha stabilito che se l’amministratore è espressamente autorizzato dal giudice tutelare a nominare un difensore, non vi è violazione del diritto di difesa. Il giudice tutelare ha il potere di conformare i poteri dell’amministratore, incluso quello di nominare un difensore fiduciario, se ciò è ritenuto necessario per proteggere gli interessi dell’imputato nel processo penale. La Corte ha anche chiarito che la mera sottoposizione a un’amministrazione di sostegno non implica automaticamente l’incapacità di partecipare consapevolmente al processo, distinguendo tra incapacità processuale e mancanza di imputabilità.

Corte di Cassazione Penale, II Sezione, Sentenza n. 34753 del 31 maggio-9 agosto 2023
La sentenza n. 34753 del 31 maggio-9 agosto 2023 della Corte di Cassazione ha confermato che un imputato sotto amministrazione di sostegno conserva il diritto di nominare un difensore di fiducia. L’amministrazione di sostegno, secondo l’articolo 409 del codice civile, non toglie al beneficiario la capacità di agire per gli atti che non richiedono l’assistenza esclusiva dell’amministratore. Pertanto, se l’imputato è capace di intendere e di volere, può esercitare il diritto di scegliere autonomamente un difensore.

Confronto e Conclusioni
Entrambe le sentenze riconoscono l’importanza della capacità di agire dell’imputato sottoposto ad amministrazione di sostegno. La sentenza del 2018 enfatizza il ruolo del giudice tutelare nell’autorizzare l’amministratore di sostegno a nominare un difensore, mentre la sentenza del 2023 sottolinea la capacità residua dell’imputato di fare tale scelta. In entrambi i casi, la capacità di intendere e di volere dell’imputato è il criterio fondamentale per determinare la validità della nomina del difensore.
La giurisprudenza mostra un’evoluzione verso il riconoscimento dell’autonomia dell’imputato, pur nel contesto di un’amministrazione di sostegno. La capacità di agire non è completamente rimossa, ma limitata solo agli atti che il giudice specifica nel decreto di amministrazione di sostegno. Questo approccio rispetta la dignità e l’autonomia dell’individuo, garantendo nel contempo la protezione necessaria attraverso l’amministrazione di sostegno.
In conclusione, la giurisprudenza sembra orientata a bilanciare la protezione degli individui vulnerabili con il mantenimento della loro autonomia legale, in particolare nel contesto del diritto penale e della capacità di scegliere un difensore di fiducia.

La Mediazione Civile e le Eccezioni alla Condizione di Procedibilità: Il Caso dei Procedimenti Possessori

La mediazione civile rappresenta uno strumento fondamentale nel panorama giuridico italiano, introdotto con l’obiettivo di offrire alle parti in controversia una via alternativa e più snella rispetto al tradizionale processo giudiziario. Il Decreto Legislativo 4 marzo 2010, n. 28 ha posto le basi normative per la regolamentazione di questa pratica, delineando i casi in cui la mediazione è obbligatoria e quelli in cui, invece, non lo è.

Uno degli aspetti più rilevanti del decreto riguarda la condizione di procedibilità. In sostanza, per alcune tipologie di controversie, prima di poter accedere al giudice, le parti sono obbligate a tentare una mediazione. Tuttavia, il legislatore ha previsto delle eccezioni a questa regola.

Nel dettaglio, l’articolo 5 comma 4 lettera d del D.Lgs. 28/2010 stabilisce che la mediazione come condizione di procedibilità non è richiesta nei procedimenti possessori, almeno fino alla pronuncia dei provvedimenti previsti dall’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile.

Ma cosa significa in pratica? I procedimenti possessori sono quei procedimenti che riguardano la tutela del possesso di un bene, indipendentemente dal diritto di proprietà. Questi procedimenti hanno spesso un carattere d’urgenza, poiché mirano a tutelare una situazione di fatto che potrebbe essere compromessa dall’attesa dei tempi, spesso lunghi, della giustizia ordinaria.

Il riferimento all’articolo 703, terzo comma, del codice di procedura civile sottolinea ulteriormente questa urgenza: si tratta infatti dei provvedimenti provvisori che il giudice può adottare in attesa di una decisione definitiva sulla controversia.

In sintesi, la normativa sulla mediazione civile riconosce l’importanza di questo strumento come via alternativa al processo, ma al contempo evidenzia la necessità di garantire una tutela rapida ed efficace in determinate situazioni, come nel caso dei procedimenti possessori. Questa eccezione sottolinea l’attenzione del legislatore verso l’equilibrio tra la promozione della mediazione e la tutela dei diritti delle parti in controversia.

Il contratto di locazione immobiliare, se non diversamente convenuto, include anche le pertinenze

Con la sentenza Cassazione civile sez. II – 31/01/2019, n. 2976 la Corte ha ribadito che il contratto di locazione immobiliare, se non diversamente convenuto, include anche le pertinenze.

La pronuncia nel dettaglio ha ad oggetto la seguente vicenda.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Bologna ha confermato una sentenza precedente del Tribunale di Bologna che rigettava la domanda di nullità relativa a contratti di locazione stipulati con l’ACER per locali destinati ad autorimesse, ma che non avevano le caratteristiche necessarie per tale destinazione.
La Corte non ha ritenuto che questi locali fossero pertinenze delle abitazioni assegnate ai ricorrenti, poiché erano stati oggetto di contratti di locazione separati. Questa separazione era stata stabilita da una delibera dell’IACP.
La Corte ha anche escluso la nullità dei contratti per impossibilità dell’oggetto o per violazione di norme imperative, dato che i locali erano stati utilizzati come autorimesse dai conduttori sin dagli anni ‘60.

RAGIONI DELLA DECISIONE

I ricorrenti hanno presentato un ricorso basato su quattro motivi.
Nel primo motivo, i ricorrenti contestano l’esclusione del vincolo di pertinenzialità dei locali e sostengono che questi avrebbero dovuto essere considerati come pertinenze delle abitazioni.
Nel secondo motivo, si solleva la questione della mancanza delle caratteristiche tecniche dei locali per essere utilizzati come autorimesse, sostenendo che il contratto sarebbe nullo.
La Corte ha respinto entrambi i motivi, sottolineando che la destinazione a pertinenza può derivare dalla destinazione oggettiva o dalla destinazione operata dal proprietario. In questo caso, la separazione tra autorimesse e alloggi era stata chiaramente stabilita dall’IACP.
Nel terzo motivo, i ricorrenti hanno sollevato una questione relativa alla carenza di motivazione, ma il motivo è stato giudicato inammissibile.
Nel quarto motivo, i ricorrenti hanno contestato la decisione della Corte di non restituire il prezzo pagato per i locali. Anche questo motivo è stato giudicato inammissibile.
In conclusione, il ricorso è stato rigettato e i ricorrenti sono stati condannati a pagare le spese legali.

DECISIONE FINALE

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e ha condannato i ricorrenti a pagare le spese legali. Inoltre, ha stabilito che i ricorrenti devono versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

 

Ciò premesso vale il seguente principio di diritto il contratto di locazione immobiliare, se non diversamente convenuto, include anche le pertinenze, con la conseguenza che la specifica esclusione del rapporto pertinenziale tra due porzioni immobiliari ad opera dell’originario proprietario di entrambe non consente di affermare la sussistenza del relativo vincolo, pur ove possa apparire ragionevole l’utilità della cosa accessoria rispetto a quella principale“.

Amministrazione di sostegno – l’autorizzazione per la sottoscrizione di transazioni

Come noto l’amministrazione di sostegno è un istituto giuridico previsto dal diritto italiano per tutelare le persone che, a causa di una infermità o di una menomazione fisica o psichica, si trovano nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi.

Alcune caratteristiche principali dell’amministrazione di sostegno:

Finalità: L’obiettivo principale dell’amministrazione di sostegno è garantire la tutela delle persone incapaci, intervenendo nella loro vita solo nella misura necessaria e cercando di preservare al massimo la loro autonomia e autodeterminazione.

Amministratore di sostegno: La persona designata dal giudice tutelare per assistere e rappresentare il beneficiario nelle sue decisioni e negli atti giuridici è chiamata “amministratore di sostegno”. L’amministratore può essere un familiare, un amico o un professionista, e deve agire sempre nell’interesse del beneficiario, tenendo conto delle sue aspirazioni e bisogni.

Poteri e limiti: L’ambito di intervento dell’amministratore di sostegno è definito dal giudice nel decreto di nomina. L’amministratore può essere autorizzato a compiere atti di ordinaria amministrazione (es. gestione della quotidianità) senza necessità di ulteriori autorizzazioni. Per gli atti di straordinaria amministrazione (es. vendita di un immobile, sottoscrizione di transazioni), è generalmente richiesta l’autorizzazione del giudice tutelare.

Flessibilità: Una delle caratteristiche distintive dell’amministrazione di sostegno rispetto ad altri istituti di protezione (come l’interdizione o l’inabilitazione) è la sua flessibilità. Il giudice può modificare l’ambito di competenza dell’amministratore in base alle mutate esigenze del beneficiario.

Durata: L’amministrazione di sostegno può avere una durata temporanea o indefinita, a seconda delle necessità del beneficiario. Periodicamente, l’amministratore è tenuto a presentare al giudice tutelare una relazione sull’attività svolta e sulla situazione del beneficiario.

Revoca: L’amministrazione di sostegno può essere revocata dal giudice tutelare qualora vengano meno le condizioni che ne hanno determinato l’istituzione o in caso di inadeguatezza dell’amministratore.

L’amministrazione di sostegno rappresenta quindi uno strumento di tutela flessibile e rispettoso della dignità e dei diritti della persona, mirato a garantire il benessere e la protezione di chi non è in grado di prendersi cura di sé a causa di condizioni di salute particolari.

Le norme che regolano l’istituto sono:

Legge n. 6/2004: Questa legge ha introdotto nel codice civile l’istituto dell’amministrazione di sostegno. La norma prevede che una persona, a causa di un’infermità o di una menomazione fisica o psichica, che si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno. Questa misura è meno drastica rispetto all’interdizione e all’inabilitazione e si caratterizza per la sua flessibilità e capacità di essere modificata in base alle esigenze del beneficiario.

Sentenza Corte Costituzionale n. 440/05: Questa sentenza ha chiarito che la scelta tra l’amministrazione di sostegno e le misure più limitanti dell’interdizione o dell’inabilitazione non dipende dalla gravità dell’incapacità o della patologia, ma dalla concreta idoneità della misura a realizzare la piena tutela del soggetto.

Articolo 411 del codice civile: Questo articolo regolamenta le autorizzazioni del giudice tutelare per gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno. In particolare, per gli atti di straordinaria amministrazione, come la sottoscrizione di transazioni, è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare.

Riforma Cartabia: Questa riforma, ha introdotto importanti novità riguardo l’amministrazione di sostegno, puntando a garantire maggiori diritti e libertà agli incapaci. Ha previsto la semplificazione delle procedure di nomina degli amministratori di sostegno e ha introdotto nuovi strumenti per favorire l’autonomia delle persone assistite.

Nello specifico, l’amministratore di sostegno può necessitare dell’autorizzazione del giudice tutelare per compiere determinati atti. In particolare l’amministratore di sostegno può agire per gli atti di ordinaria amministrazione in virtù di quanto indicato nel decreto di nomina. Questo decreto può variare in termini di restrizioni a seconda dei casi specifici, ma la misura è sempre adattabile alle esigenze del beneficiario, la cui autodeterminazione e libertà devono sempre essere garantite.

Per gli atti di straordinaria amministrazione, che comportano una modifica del patrimonio del beneficiario, è necessaria l’autorizzazione del giudice tutelare. Tra gli atti di straordinaria amministrazione che richiedono l’autorizzazione del giudice tutelare ci sono: l’acquisto di beni (ad eccezione di beni mobili necessari per l’economia domestica e per l’amministrazione del patrimonio), la riscossione di capitali, il consenso alla cancellazione di ipoteche o allo svincolo di pegni, l’assunzione di obbligazioni, l’accettazione o la rinuncia all’eredità, l’accettazione di donazioni o di legati, la stipulazione di contratti di locazione d’immobili di durata superiore ai nove anni, la promozione di giudizi (con alcune eccezioni), l’alienazione di beni, la costituzione di pegni o ipoteche, la promozione di un giudizio di divisione ereditaria o la procedura di divisione ereditaria, la sottoscrizione di transazioni, l’accettazione di concordati e la proposizione di un ricorso per la separazione dei coniugi o per il divorzio.

Pertanto, se l’amministratore di sostegno desidera firmare una transazione con una compagnia di assicurazione in favore del proprio amministrato, avrà bisogno dell’autorizzazione del giudice tutelare, poiché la sottoscrizione di transazioni è considerata un atto di straordinaria amministrazione.

Pubblicato il Decreto 24 ottobre 2023 n. 150 – Mediazione

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA – DECRETO 24 ottobre 2023, n. 150 Regolamento recante la determinazione dei criteri e delle modalità di iscrizione e tenuta del registro degli organismi di mediazione e dell’elenco degli enti di formazione, nonché l’approvazione delle indennità spettanti agli organismi, ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo 4 marzo 2010, n. 28 e l’istituzione dell’elenco degli organismi ADR deputati a gestire le controversie nazionali e transfrontaliere, nonché il procedimento per l’iscrizione degli organismi ADR ai sensi dell’articolo 141-decies del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 recante Codice del consumo, a norma dell’articolo 7 della legge 29 luglio 2003, n. 229. (23G00163) (GU Serie Generale n.255 del 31-10-2023)

Il Decreto sopra citato, in attuazione della c.d. Riforma Cartabia, introduce alcune novità in merito alla mediazione. In particolare all’art. 28 disciplina le indennità e spese per il primo incontro. Di seguito una sua sintesi:

Obbligo di pagamento: Le parti devono versare un’indennità e spese vive all’organismo di mediazione.
Composizione dell’indennità: Include spese di avvio e spese di mediazione (compenso del mediatore).
Spese vive: Costi per convocazione, sottoscrizione digitale (se manca firma digitale della parte) e rilascio copie documenti.
Spese di avvio:
€ 40,00: liti fino a € 1.000,00
€ 75,00: liti da € 1.000,01 a € 50.000,00
€ 110,00: liti oltre € 50.000,00 o indeterminato
Spese di mediazione:
€ 60,00: liti fino a € 1.000 o valore indeterminabile basso
€ 120,00: liti da € 1.000,01 a € 50.000,00 o valore indeterminabile medio
€ 170,00: liti oltre € 50.000,00 o valore indeterminabile alto
Incontro senza conciliazione: Si pagano solo gli importi dei commi 4 e 5.
Incontro con conciliazione: Si pagano ulteriori spese secondo l’articolo 30, comma 1.
Riduzione spese: Se la mediazione è obbligatoria o richiesta dal giudice, l’indennità e le ulteriori spese sono ridotte di un quinto.

Locazione di box auto e clausola risolutiva prevista a favore del locatore in caso di vendita dell’immobile locato

La normativa applicabile

La locazione di un box auto in Italia è regolamentata dalla legge italiana e, in particolare, si rifà in gran parte alle norme del codice civile, oltre a quelle previste per la locazione di immobili ad uso abitativo o diverso da abitativo.

In generale si può rilevare che:

  • Natura Giuridica: La locazione di un box auto è generalmente considerata una locazione di cosa, e il box auto è classificato come un immobile a destinazione speciale.
  • Contratto di Locazione: La locazione di un box auto deve essere regolata da un contratto scritto, nel quale devono essere specificate le condizioni di utilizzo, la durata della locazione, l’importo del canone mensile e le altre condizioni pattuite tra le parti.
  • Durata: La durata del contratto di locazione per un box auto può essere stabilita liberamente dalle parti. In assenza di una specifica durata, si applica la normativa generale sulla locazione di immobili diversi da abitativo.
  • Canone di Locazione: L’importo del canone di locazione può essere liberamente pattuito tra le parti. Esso può essere soggetto a revisione secondo le modalità previste dal contratto.
  • Uso del Box: Il locatario deve utilizzare il box auto esclusivamente per il parcheggio del veicolo e non per altri scopi (ad esempio, come deposito). Eventuali danni al box auto sono di responsabilità del locatario.
  • Tassazione: I redditi derivanti dalla locazione di un box auto sono soggetti a tassazione, e il locatore ha l’obbligo di dichiararli nel proprio modello di dichiarazione dei redditi.
  • Registrazione del Contratto: Il contratto di locazione di un box auto deve essere registrato presso l’Agenzia delle Entrate entro 30 giorni dalla data di stipula. Sono previste sanzioni in caso di mancata registrazione.
  • Cessione del contratto e Sublocazione: Salvo diverso accordo tra le parti, il locatario non può cedere il contratto di locazione a terzi o sublocare il box auto senza il consenso del locatore.
  • Risoluzione e Disdetta: Le cause di risoluzione del contratto di locazione sono quelle previste dalla legge e dal contratto stesso. In generale, il locatore può risolvere il contratto in caso di morosità del locatario, mentre il locatario può recedere dal contratto dando un preavviso scritto, generalmente di almeno 6 mesi, salvo diverso accordo tra le parti.
  • Normativa di Riferimento: La locazione di un box auto segue, in gran parte, le norme previste dal Codice Civile per le locazioni e dalla legge n. 392/1978.

La validità di una clausola di risoluzione a favore del locatore

Una clausola di risoluzione inserita in un contratto di locazione di un box auto a favore del locatore può essere valida, ma la sua effettiva applicabilità dipende da diversi fattori:

  • Motivazione della Clausola: La clausola di risoluzione deve essere chiara riguardo alle motivazioni che possono portare alla risoluzione del contratto da parte del locatore. Ad esempio, una motivazione comune è la morosità del locatario.
  • Proporzionalità e Bilanciamento: La clausola di risoluzione non deve essere vessatoria o sproporzionata. Deve garantire un equilibrio tra i diritti e gli obblighi delle parti.
  • Comunicazione e Formalità: In generale, prima di procedere alla risoluzione, il locatore dovrebbe fornire al locatario una comunicazione scritta, dando a quest’ultimo la possibilità di rimediare alla violazione entro un certo periodo di tempo (ad esempio, pagando l’arretrato in caso di morosità).
  • Clausole Standardizzate: Se la clausola di risoluzione fa parte di clausole standardizzate (ossia pre-impostate e non negoziate tra le parti), potrebbe essere considerata non valida se giudicata vessatoria. Le clausole standardizzate sono soggette a un controllo di validità da parte dei tribunali.
  • Clausole Contrarie alla Legge: Qualsiasi clausola che sia contraria alle disposizioni di legge è considerata nulla. Ad esempio, una clausola che permetta al locatore di risolvere il contratto senza una giusta causa o senza fornire un preavviso adeguato potrebbe essere considerata nulla.
  • Valutazione del Tribunale: In caso di contenzioso tra locatore e locatario riguardo alla risoluzione del contratto, sarà il tribunale a valutare la validità e l’applicabilità della clausola di risoluzione.

Conclusioni

In definitiva il contratto di locazione di un box auto segue le norme generali della locazione stabilite dal codice civile ed il suo contenuto è in gran parte libero e rimesso alla negoziazione tra le parti. Per tale motivo la previsione di una clausola in base alla quel in caso di vendita dell’immobile locato, previa comunicazione con un congruo termine al conduttore, il contratto si risolva è valida.

Automobile difettosa: quando è possibile chiederne la sostituzione?

La sostituzione di un’autovettura viziata può avvenire solo nel caso in cui l’entità del danno sia tale da rendere antieconomica la riparazione del veicolo.

Il consumatore che acquisti un qualunque bene di consumo, intendendosi con tale termine qualsiasi cosa mobile venduta da qualsivoglia persona fisica o giuridica pubblica o privata nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, il quale si riveli essere viziato o comunque difforme dal bene oggetto del contratto, beneficia automaticamente di una serie di garanzie previste dalla legge, finalizzate esclusivamente a tutelare la posizione del consumatore deluso.

In particolare, l’art. 130 del D. Lgs. 206/2005 (c.d. Codice del Consumo) prevede che “il venditore è responsabile nei confronti del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene. In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, a norma dei commi 3, 4, 5 e 6, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto, conformemente ai commi 7, 8 e 9”.

Dall’analisi del dettato normativo emerge con chiarezza come il consumatore abbia a propria disposizione vari rimedi, tutti idonei a porre nel nulla gli effetti di una compravendita svantaggiosa: in primo luogo, il compratore può chiedere la riparazione del bene a spese del venditore; in secondo luogo, è possibile che il bene viziato venga integralmente sostituito con una cosa di identica qualità e tipo, ma priva di vizi; in terzo luogo, il compratore può chiedere che il prezzo della compravendita venga proporzionalmente ridotto in base all’incidenza del vizio riscontrato e, nei casi in cui l’acquirente non abbia alcun interesse a tenere il bene viziato, chiedere la risoluzione del contratto di compravendita, restituendo la cosa viziata e obbligando il venditore alla ripetizione del prezzo pagato.

Esaminando più nel dettaglio l’ipotesi della sostituzione del bene viziato, appare opportuno ricordare che si tratta di un rimedio esperibile solo in presenza di determinati presupposti fattuali.

Infatti, il Codice del Consumo prevede espressamente che la sostituzione possa essere richiesta solo nel caso in cui non sia eccessivamente onerosa per il venditore.

La valutazione di eccessiva onerosità imposta dal Legislatore deve essere operata tenendo conto di tre distinti elementi, delineati dal Codice del Consumo stesso: a) il valore che il bene avrebbe se non vi fosse difetto di conformità; b) l’entità del difetto di conformità; c) l’eventualità che il criterio alternativo possa essere esperito senza notevoli inconvenienti per il consumatore.

Ciò significa, in altri termini, che il rimedio della sostituzione deve ritenersi escluso in tutti i casi in cui le spese che si renderebbero necessarie per soddisfare la richiesta in tal senso formulata dal consumatore risultassero irragionevoli, e cioè sproporzionatamente elevate, se poste a confronto con i costi implicati dal rimedio della riparazione.

Tale principio è stato di recente espresso anche dalla Corte d’Appello di Napoli, che ha rigettato la richiesta di sostituzione di un’autovettura che presentava un difetto congenito al cambio sulla base della sproporzione tra il costo delle riparazioni necessarie (pari ad euro 4.148,00), rispetto al valore dell’automobile, commisurato al prezzo di acquisto (pari ad euro 31.450,00).

In tale ipotesi, al compratore risulterebbe quindi precluso il rimedio della sostituzione del bene viziato.

Immobile difforme dalla concessione edilizia: quale sorte per il preliminare e il contratto di compravendita?

Come noto, nella generalità degli affari immobiliari, la parte venditrice e la parte acquirente, prima di addivenire alla stipula del contratto di compravendita avanti al notaio, cristallizzano la propria volontà negoziale nel c.d. contratto preliminare: a differenza della vendita vera e propria, che provoca come effetto istantaneo il trasferimento del diritto di proprietà sull’immobile (e per questo viene classificata come contratto c.d. traslativo), il preliminare di vendita obbliga le parti che lo concludono a stipulare, in un momento successivo, il contratto di compravendita definitivo (rientrando quindi nella categoria dei contratti ad efficacia c.d. obbligatoria).
Attraverso il preliminare, in altre parole, l’acquirente e il venditore assumono l’impegno reciproco di concludere l’affare, assicurando il trasferimento del diritto di proprietà.
Nel corso delle trattative, può accadere che le parti scoprano l’esistenza di alcune irregolarità urbanistiche riferibili all’immobile oggetto della contrattazione, tali da renderlo sostanzialmente difforme dal relativo provvedimento amministrativo di concessione edilizia.
La questione riveste non poco peso, atteso che l’art. 40 della legge n. 47/1985 (“Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e penali”) prevede espressamente la sanzione della nullità per i contratti che abbiano ad oggetto immobili privi della necessaria concessione edificatoria.
Sul punto, è importante rilevare, in prima battuta, che l’art. 40 della legge n. 47/1985 deve trovare applicazione solo con riferimento ai contratti con effetti traslativi (come la compravendita), ma non nei confronti dei contratti con efficacia obbligatoria (tra i quali è incluso anche il contratto preliminare).
Pertanto, il contratto preliminare avente ad oggetto un immobile sprovvisto di concessione edilizia o da quest’ultima difforme continuerebbe a spiegare i propri effetti, non potendosi considerare nullo ai sensi dell’esaminata normativa.
Tanto premesso, appare legittimo interrogarsi su quale sorte tocchi al contratto di compravendita avente ad oggetto il medesimo immobile: se, come sopra esposto, la nullità di cui all’art. 40 della legge 47/1985 colpisce solo i contratti ad effetti traslativi, tra i quali rientra la compravendita, si giungerebbe al paradosso di “salvare” il preliminare per poi ritenere nullo il contratto definitivo?
In risposta a tale quesito, come sottolineato in più occasioni dalla Corte di Cassazione, è sufficiente ricordare che la predetta nullità deve essere qualificata come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile.
Pertanto, in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato.
In altri termini, la nullità prevista dalla legge 47/1985 andrà a sanzionare solo gli atti di compravendita che, al proprio interno, non facciano menzione degli estremi del provvedimento di concessione urbanistica, non rilevando, ai fini della validità dell’atto, che l’immobile compravenduto presenti difformità urbanistiche rispetto alla relativa concessione edificatoria.

L’immobile acquistato solo in parte con denaro altrui deve considerarsi di provenienza donativa?

L’art. 769 del codice civile definisce la donazione come “il contratto con il quale una parte, per puro spirito di liberalità, arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione”.

Caratteristica fondamentale del contratto di donazione è dunque la presenza del cosiddetto animus donandi, ovvero la volontà e consapevolezza del donante di arricchire un altro soggetto per mezzo di un’elargizione spontanea, con lo scopo di soddisfare un interesse di natura non patrimoniale esistente in capo al disponente stesso.

Per contro, nel caso delle cosiddette donazioni indirette, la medesima finalità viene perseguita attraverso vari “stratagemmi” negoziali, che non implicano l’utilizzo del vero e proprio contratto di donazione di cui all’art. 769 c.c.

La distinzione tra le due tipologie di donazione è cruciale, atteso che solo in riferimento alla donazione diretta trovano applicazione alcune specifiche norme del codice civile (ad esempio, solo le donazioni dirette devono rivestire la forma dell’atto pubblico a pena di nullità).

Fermo quanto sopra esposto, il conferimento di denaro da parte di un soggetto per l’acquisto di un immobile da parte di un altro, tuttavia non sufficiente a sostenere l’intero costo dell’operazione di compravendita, può essere considerato una donazione? E, in caso di risposta affermativa, dovrebbe essere qualificata come donazione diretta o indiretta?

A ben vedere, infatti, la dazione di una somma di denaro inferiore al prezzo dell’immobile non sarebbe idonea a provocare l’arricchimento voluto dal donante, in quanto non sufficiente a permettere l’ingresso dell’immobile nel patrimonio del donatario.

Come tale, non sarebbe dunque idonea ad essere qualificata come donazione indiretta dell’immobile, data l’impossibilità, per il donatario, di acquisire l’immobile al proprio patrimonio con le sole somme corrisposte dal donante.

Tuttavia, la giurisprudenza prevalente accoglie una diversa soluzione, atta a ricondurre la dazione di una somma di denaro per l’acquisto di un immobile nell’alveo delle donazioni indirette.

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 10759/2019, ha infatti riconosciuto la possibilità che la liberalità realizzata con la corresponsione delle somme necessarie a pagare parte del prezzo di un immobile possa essere considerata tale laddove sia dimostrato lo specifico collegamento tra dazione e successivo impiego delle somme (ovvero, l’acquisto dell’immobile).

In questo specifico caso, l’oggetto della liberalità, che si qualificherà dunque come indiretta, deve essere identificato non nel denaro corrisposto dal disponente, ma nella percentuale di proprietà del bene acquistato corrispondente alla quota parte di prezzo soddisfatta con la provvista fornita dal donante.

Licenziato a causa del sinistro stradale? Il guidatore deve corrispondere tutte le retribuzione perdute

Le conseguenze negative di un incidente stradale possono riverberarsi su molteplici aspetti della vita quotidiana dei soggetti danneggiati.

Infatti, è ben possibile che la vittima di un sinistro causato da un’auto in transito, a causa della gravità delle lesioni riportate, subisca un licenziamento legittimo per superamento del periodo di comporto, intendendosi con tale termine quell’arco temporale durante il quale il dipendente in malattia ha diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro.

Infatti, superato il periodo di comporto, anche per causa non imputabile al lavoratore, il datore di lavoro potrebbe legittimamente licenziare il proprio dipendente senza incorrere in alcun tipo di conseguenza negativa.

Appare dunque ragionevole chiedersi a quale forma di tutela possa avere accesso il lavoratore licenziato a causa del protrarsi dell’infermità generata dall’incidente stradale, considerato che, nell’ipotesi in cui il sinistro non si fosse verificato, avrebbe senz’altro potuto conservare il proprio posto di lavoro.

Al medesimo interrogativo ha fornito esaustiva risposta la Corte di Cassazione, che, con la recente sentenza n. 28071/20, ha chiaramente identificato la misura del risarcimento spettante alla vittima del sinistro stradale nel caso in cui la perdita dei redditi da lavoro sia conseguenza immediata e diretta dell’incidente.

In particolare, laddove il danneggiato dimostri di avere perduto un preesistente rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui era titolare, a causa delle lesioni conseguenti ad un illecito, il danneggiante è tenuto a corrispondere una somma pari a tutte le retribuzioni (nonché di tutti i relativi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici) che il danneggiato avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base a quello specifico rapporto di lavoro, in misura integrale.

In tal caso, nell’interpretazione fornita dalla Cassazione, il risarcimento non può essere parametrato alla sola percentuale di perdita della capacità lavorativa specifica accertata come conseguente alle lesioni permanenti riportate; deve bensì avere ad oggetto la totalità delle somme che sarebbero state corrisposte al lavoratore a titolo retributivo e contributivo.

L’unico limite alla responsabilità del danneggiante è costituito dall’ipotesi in cui questi riesca a dimostrare che il danneggiato abbia di fatto reperito una nuova occupazione retribuita, ovvero che, pur potendo farlo, non lo abbia fatto per sua colpa. Al verificarsi di tale ultima circostanza, il danno potrà essere liquidato esclusivamente nella differenza tra le retribuzioni perdute e quelle di fatto conseguite o conseguibili in virtù della nuova occupazione.

Figli maggiorenni: quando cessa l’obbligo di mantenimento dei genitori?

La nascita di un figlio comporta innumerevoli conseguenze, sia sul piano personale e sociale, sia sul piano giuridico.

La nascita di un bimbo è infatti elemento necessario e sufficiente per vincolare i genitori al rispetto di numerosi obblighi, imposti dalla legge a tutela e protezione del fanciullo.

Sul punto, una delle norme maggiormente rilevanti è senz’altro costituita dall’art. 316 bis c.c, il quale prevede che “i genitori devono adempiere i loro obblighi nei confronti dei figli in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo”.

Ciò significa, in buona sostanza, che i genitori devono cooperare tra loro al fine di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni.

Con specifico riferimento all’obbligo di mantenimento, accade spesso che, a seguito della separazione dei genitori (indipendentemente dal fatto che siano sposati o meno), il Tribunale imponga al genitore non convivente il pagamento di una somma a titolo di concorso nel mantenimento del figlio, da corrispondersi sino al momento in cui questi diventerà economicamente autosufficiente.

Infatti, l’obbligo di mantenimento gravante in capo al genitore non cessa con il compimento della maggiore età del figlio, ma si protrae fino al momento in cui quest’ultimo fa il proprio ingresso effettivo nel mondo del lavoro, con la percezione di una retribuzione (sia pure modesta).

L’obbligo del mantenimento dei genitori consiste infatti nel dovere di assicurare ai figli, anche oltre il raggiungimento della maggiore età, e in proporzione alle risorse economiche del soggetto obbligato, la possibilità di completare il percorso formativo prescelto e di acquisire la capacità lavorativa necessaria a rendersi autosufficiente (Corte di Cassazione, ordinanza n. 19696/19).

Tuttavia, il mantenimento al figlio è garantito anche nel caso in cui, ultimato il prescelto percorso formativo scolastico, questi, pur non riuscendo nell’intento, si adoperi effettivamente per rendersi autonomo economicamente, impegnandosi attivamente per trovare un’occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni, senza indugiare nell’attesa di una opportunità lavorativa consona alle proprie ambizioni (Corte di Cassazione, ordinanza n. 29779/20).

Pertanto, in conclusione, l’unica ipotesi in cui la legge consente al genitore di cessare il mantenimento del figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente è quella in cui questi non svolga alcuna attività lavorativa tale da renderlo indipendente anche parzialmente, e tantomeno risulti che egli abbia, in tutti i modi possibili e ragionevoli, cercato soluzioni lavorative adeguate.

In questo caso, infatti, non appare né giusto né ragionevole trasferire in capo al genitore le conseguenze negative della condotta del figlio che non intenda consapevolmente progredire né dal punto di vista economico né dal punto di vista sociale.

Al verificarsi di tale situazione, il genitore che intendesse rivedere i termini del rapporto economico con i figli, potrà quindi rivolgersi al Tribunale, al fine di vedersi sollevato dall’obbligo di corresponsione dell’assegno mensile di mantenimento.

I condomini devono partecipare alle spese di abbattimento e reimpianto degli alberi ornamentali, anche se di proprietà esclusiva

Con una interessante e recente pronuncia resa in tema di ripartizione degli oneri condominiali, la Corte di Cassazione ha stabilito che le spese necessarie per l’abbattimento ed il reimpianto di alberi ad altro fusto, di proprietà esclusiva di uno solo dei condomini, debbano essere suddivise tra tutti i condomini se gli alberi concorrono a costituire in modo indissolubile il decoro architettonico dell’edificio (ordinanza n. 22573/20).

La pronuncia della Suprema Corte ha preso le mosse da una lontana sentenza del 1994, in cui il Collegio aveva già osservato come le spese di potatura degli alberi, che pur insistono su suolo oggetto di proprietà esclusiva di un solo condomino, debbano gravare su tutti i condomini allorché si tratti di piante funzionali al decoro dell’intero edificio e la potatura stessa avvenga per soddisfare le relative esigenze di cura del decoro stesso (Corte di Cassazione, sentenza n. 3666 del 18/04/1994).

Tale sentenza evidenziava come le piante di alto fusto possano formare oggetto, ad un tempo, di proprietà esclusiva e di comunione, fornendo utilità differenziate al proprietario del suolo e ai titolari delle unità immobiliari dell’edificio condominiale, in quanto componenti essenziali dell’estetica architettonica del fabbricato.

Il fondamento della partecipazione agli oneri condominiali, ai sensi degli artt. 1123 c.c. e segg. (il quale prevede che “le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione. Se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne”), non è infatti necessariamente correlato alla contitolarità del bene, bensì all’utilità che il bene stesso arreca alle singole unità immobiliari, indipendentemente dal regime di proprietà.

In conclusione, la giurisprudenza prevalente sembrerebbe non riconoscere valore dirimente alla circostanza che le piante siano di proprietà esclusiva di uno solo dei condomini, ritenendo che il valore estetico e ornamentale che aggiungono all’intero edificio sia tale da giustificare la ripartizione delle spese di potatura, abbattimento e reimpianto tra tutti coloro che, seppur non proprietari delle stesse, beneficino dell’abbellimento collegato all’esistenza di una lussureggiante vegetazione condominiale.

Processo civile telematico e fattura elettronica con firma scaduta: quid iuris?

Si è già parlato delle fatture elettroniche e della loro utilizzabilità nel procedimento per ingiunzione di pagamento in questo articolo: link

Come noto, nel processo civile telematico (PCT), le fatture in formato .xml ed i relativi esiti vanno imbustati e caricati sul sistema. Ebbene, può accadere (ed anzi: è probabile) che le fatture in nostro possesso siano state firmate elettronicamente.

Facciamo un passo indietro: cos’è l’xml? E il .p7m? Inoltre, la firma elettronica è obbligatoria sulle fatture elettroniche?

Andiamo con ordine: l’xml, eXtensible Markup Language, è l’unico formato file conforme agli standard definiti dal Sistema di Interscambio per le fatture elettroniche, mentre xml.p7m è il formato della fattura elettronica firmata digitalmente.

Per quanto riguarda l’obbligatorietà o meno di firmare le fatture occorre distinguere: per le fatture PA (cioè quelle emesse nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni, peraltro obbligatorie ormai da più di un lustro) tale previsione è obbligatoria, mentre per le fatture c.d. b2b (business to business, ovverosia tra privati) è prevista come meramente facoltativa.

E cos’è la firma elettronica? Il concetto di firma elettronica è normato dal Regolamento eIDAS (Regolamento UE n. 910/2014), il quale è stato recepito all’interno del Codice dell’Amministrazione Digitale (CAD – Decreto Legislativo 7 marzo 2005, n. 82).

La firma apposta alle fatture elettroniche soggiace alle normali regole di validità delle firme, e per tale motivo è soggetta a scadenza.

Il problema: se abbiamo una fattura emessa nel 2019 con firma, e quest’ultima ha il certificato scaduto, come possiamo imbustarla? Il programma che gestisce il PCT infatti ci avvertirà che il certificato di firma del documento xml.p7m non è valido, e per tale motivo ci impedirà di caricarlo.

Una precisazione è d’obbligo: se la fattura ha la firma scaduta, ma quando è stata apposta era valida, il documento non è nullo. Inoltre, le fatture elettroniche vanno obbligatoriamente conservate per rispettare le previsioni normative in materia.

Tutto ciò premesso, come aggirare l’ostacolo? Come caricare nel PCT una fattura elettronica con certificato di firma scaduto? È semplice: con un software che consenta di aprire i xml.p7m (quali, a titolo di esempio, ArubaSign e FirmaCerta) sarà sufficiente salvare il file .xml “puro” senza firma e procedere al suo deposito.

Fideiussioni omnibus e normativa antitrust: le possibilità di liberazione del garante – parte 2

PARTE 2: LA SANZIONE PER LA BANCA

Come ampiamente argomentato nel precedente contributo, il contratto di fideiussione omnibus è recentemente balzato agli onori della cronaca giudiziaria perché lo schema contrattuale utilizzato uniformemente dagli istituti di credito operanti sul territorio, predisposto dall’ABI nel lontano 2002, conterrebbe tre specifiche clausole idonee a restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale, in violazione della vigente disciplina antitrust (per approfondire, clicca qui).

La giurisprudenza prevalente, sia di merito che di legittimità, ha dimostrato di aver pienamente recepito il contenuto del provvedimento della Banca d’Italia dichiarando nulle le clausole anticoncorrenziali contenute nelle singole fideiussioni omnibus.

La soluzione proposta si colloca ad un livello intermedio tra due ulteriori correnti giurisprudenziali nettamente più marcate: un primo orientamento, valorizzando il disposto testuale dell’art. 2 della legge antitrust (che sancisce la nullità ad ogni effetto di qualsivoglia intesa anticoncorrenziale), invocava la nullità dell’intero contratto di fideiussione; un secondo orientamento, più favorevole per la posizione del soggetto garantito, non riconoscendo alla disciplina dettata dall’art. 2 natura di norma imperativa, attribuiva al garante un rimedio esclusivamente risarcitorio, con piena salvezza del contratto sottoscritto in violazione della normativa antitrust.

L’ipotesi della nullità integrale del contratto di fideiussione omnibus non è stata accolta con favore dalla maggioranza degli operatori del diritto, in quanto “derogatoria” alla disciplina generale dall’art. 1419 c.c..

L’estensione all’intero contratto della nullità delle singole clausole, secondo la previsione dell’art. 1419 c.c., trattandosi di una deroga al principio generale della conservazione del contratto, ha infatti carattere eccezionale, e può essere dichiarata dal giudice solo se risulti che il negozio non sarebbe stato concluso senza quella parte del suo contenuto colpita dalla nullità. In altri termini, ciò può avvenire solo se il contenuto dispositivo del negozio, privo della parte nulla, risulti inidoneo a realizzare le finalità cui la sua conclusione era preordinata.

Allo stesso modo, l’accesso al solo rimedio risarcitorio, è stato considerato inidoneo a sanzionare adeguatamente la condotta degli istituti di credito che, in qualità di imprese in grado di imporre clausole contrattuali che, qualora applicate in modo uniforme, causerebbero un peggioramento della qualità complessiva dell’offerta. Ciò infatti comporterebbe una lesione intollerabile ad alcuni dei principi economici fondamentali dell’ordinamento.

Pertanto, a tutela del diritto alla libera concorrenza e del principio di ordine pubblico economico di concorrenzialità dei mercati, la giurisprudenza prevalente (e, in particolare, Cass. Civ. n. 24044/2019), in presenza di una fideiussione omnibus che ricalchi le clausole attenzionate dalla Banca d’Italia (clicca qui per approfondire), ha stabilito che queste ultime potranno essere dichiarate nulle, mentre il contratto di fideiussione rimarrà in vita epurato delle clausole invalide.

Fideiussioni omnibus e normativa antitrust: le possibilità di liberazione del garante – parte 1

PARTE 1: INQUADRAMENTO NORMATIVO

Con la legge n. 287/1990 (c.d. legge antitrust) sono state previste alcune norme a tutela della libera concorrenza e del mercato nazionale. In particolare, il Legislatore ha vietato le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto quello di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale (o una parte rilevante di esso) attraverso attività consistenti, tra l’altro, nel “fissare direttamente o indirettamente prezzi di acquisto o di vendita ovvero altre condizioni contrattuali”.

In altre parole, l’ordinamento si è erto a difesa del diritto di iniziativa economica, impedendo la nascita e lo sviluppo di intese economiche, l’abuso di posizioni dominanti e le concentrazioni di imprese.

Ai sensi dell’art. 2 della legge antitrust, ogni intesa conclusa in violazione della disciplina ivi contenuta deve essere ritenuta nulla a tutti gli effetti, con importanti riflessi sul piano giuridico.

È agevole intuire come un’intesa anticoncorrenziale tra imprese possa assumere le forme più disparate, provocando, ad esempio, la fissazione diretta o indiretta dei prezzi di acquisto di beni o servizi, la spartizione delle fonti di approvvigionamento o di parti del mercato, l’applicazione di condizioni contrattuali ed economiche notevolmente (ed ingiustamente) più svantaggiose solo per alcuni dei concorrenti, il blocco degli accessi al mercato da parte dei soggetti economicamente più deboli, la previsione di condizioni contrattuali uniformi.

Tale ultima ipotesi, in particolare, ha sancito il parziale superamento di una tipologia di contratto di garanzia molto diffuso in ambito bancario: la fideiussione omnibus.

Con il contratto di fideiussione omnibus, un soggetto terzo accetta di garantire una serie indeterminata di differenti operazioni poste in essere tra la banca e il cliente (debitore principale), prestando garanzia per tutte le obbligazioni da quest’ultimo assunte in un determinato arco di tempo o fino ad un ammontare prestabilito.

La ragione per cui tale tipologia di contratto si è posta in contrasto con la normativa antitrust è presto spiegata: i contratti conclusi tra la banca e i singoli garanti ricalcano uno schema negoziale unico, predisposto nel 2002 dall’Associazione Bancaria Italiana (ABI).

In altre parole, gli istituti di credito aderenti all’ABI, operanti su tutto il territorio nazionale, utilizzano sin dal 2002 un modello contrattuale assolutamente identico, persino nella numerazione delle singole clausole applicabili.

Sulla base di quanto esposto in precedenza, è intuitivo immaginare come la fattispecie sopra descritta possa essere qualificata come fissazione diretta, da parte delle imprese operanti nel settore bancario, di condizioni contrattuali da applicare in modo uniforme nel mercato di riferimento, creando così una illecita interferenza nei meccanismi di autoregolazione del libero mercato economico. Semplificando in modo estremo, tale meccanismo provocherebbe un appiattimento tale dell’offerta contrattuale che nessun istituto di credito sarebbe spinto a proporre condizioni migliorative per la clientela, tutelato da una sostanziale mancanza di competizione.

Pertanto, considerata la sua potenziale idoneità a violare la legge n. 287/1990, lo schema di contratto di “fideiussione a garanzia delle operazioni bancarie” predisposto dall’ABI, veniva esaminato sia dalla Banca d’Italia che dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) nel marzo del 2003.

Successivamente, con provvedimento n. 55 del 05.05.2005, la Banca d’Italia individuava tre specifiche clausole previste dal modello ABI (e, di riflesso, dalla quasi totalità degli istituti di credito operanti sul territorio nazionale) come potenzialmente lesive della concorrenza:

1) “il fideiussore è tenuto a rimborsare alla banca le somme che dalla banca stessa fossero state incassate in pagamento di obbligazioni garantite e che dovessero essere restituite a seguito di annullamento, inefficacia o revoca dei pagamenti stessi, o per qualsiasi altro motivo

2) “qualora le obbligazioni garantite siano dichiarate invalide, la fideiussione garantisce comunque l’obbligo del debitore di restituire le somme allo stesso erogate”;

3) “i diritti derivanti alla banca dalla fideiussione restano integri fino a totale estinzione di ogni suo credito verso il debitore, senza che essa sia tenuta ad escutere il debitore o il fideiussore medesimi o qualsiasi altro coobbligato o garante entro i tempi previsti, a seconda dei casi, dall’art. 1957 c.c., che si intende derogato”. Tale clausola, in particolare, permette alla banca di agire nei confronti del fideiussore anche oltre il termine di sei mesi previsto dall’art. 1957 c.c., con notevole aggravio per la posizione del garante.

Nell’interpretazione fornita dalla Banca d’Italia, tali clausole non risulterebbero funzionali all’erogazione del credito, avendo quale unico scopo quello di addossare al fideiussore le conseguenze negative derivanti dall’inosservanza degli obblighi di diligenza della banca ovvero dall’invalidità o dall’inefficacia dell’obbligazione principale e degli atti estintivi della stessa.

Giunti a tale punto, è legittimo interrogarsi su quali siano stati gli effetti generati dal provvedimento della Banca d’Italia sulle fideiussioni esistenti stipulate sulla base del modello ABI 2002, e se, in qualche modo, i soggetti che hanno prestato garanzie a favore della banca possano vittoriosamente liberarsene.

Per scoprire in che termini la giurisprudenza abbia recepito il provvedimento della Banca d’Italia clicca qui.

 

Coronavirus e sospensione dei canoni locatizi: le sentenze più recenti

Con un provvedimento d’urgenza reso in data 14.04.2020, il Tribunale di Venezia ha impedito al locatore di un immobile adibito ad esercizio commerciale di escutere una fideiussione stipulata dal conduttore, titolare dell’attività di commercio al dettaglio, rilasciata al fine di garantire il pagamento dei canoni di locazione non abitativa dell’immobile.
Il conduttore ricorrente avrebbe infatti sostenuto di non essere in grado di pagare i canoni dovuti per i mesi di chiusura dell’attività al pubblico, individuando nella causa di forza maggiore costituita dalle misure restrittive imposte dal Governo la ragione del proprio inadempimento.
Il Tribunale, accogliendo la linea difensiva proposta dal conduttore moroso, di fatto impossibilitato al pagamento del dovuto per la locazione dell’immobile in cui aveva sede la propria attività in ragione della carenza di liquidità generata dalla sospensione delle attività imprenditoriali e commerciali, si è collocata come capofila di una serie di altri ulteriori provvedimenti, provenienti dai Tribunali di tutta Italia, tendenzialmente posti a tutela delle parti contrattuali danneggiate dal protrarsi del lockdown.
Sulla stessa linea, con sentenza resa in data 12.05.2020, il Tribunale di Bologna ha impedito al proprietario di un immobile adibito a centro estetico di incassare gli assegni bancari sottoscritti dalla conduttrice e titolare dell’attività a garanzia del pagamento dei canoni locatizi relativi al periodo aprile-luglio 2020.
Così decidendo, Il Tribunale ha permesso alla conduttrice di evitare le sanzioni che le sarebbero state comminate dalla legge nel probabile caso in cui gli assegni non fossero stati pagati per difetto di provvista (protesti, divieto di emettere nuovi assegni, ecc.).
Allo stesso modo, il Tribunale di Rimini, con provvedimento d’urgenza reso in data 25.05.2020, ha accolto le richieste di un albergatore il quale si ritrovava impossibilitato a pagare regolarmente il canone di locazione pattuito a fronte della chiusura forzata dell’attività da marzo a maggio 2020. Anche in questo caso, il proprietario dell’immobile ospitante l’esercizio alberghiero era determinato ad incassare alcuni assegni firmati in bianco a garanzia del pagamento dei canoni mensili.
Tuttavia, l’intervento del Tribunale ha impedito al proprietario di mettere all’incasso i predetti titoli, stabilendo che la prestazione dovuta dal conduttore, considerata la legislazione emergenziale e la situazione di fatto esistente, non si sarebbe potuta considerare normalmente esigibile.
Elemento comune ai tre casi giudiziari sopra citati è la natura d’urgenza dei provvedimenti reso dai tribunali aditi, i quali ben potrebbero subire notevoli ribaltamenti al termine del successivo giudizio a cognizione piena.
Tuttavia, emerge con chiarezza la tendenza della giurisprudenza di merito a portare a termine quanto solo preventivato dal Governo in tema di locazione non abitativa, ma mai effettivamente realizzato: infatti, l’art. 65 del D.L. Cura Italia non ha sospeso il pagamento dei canoni di locazione, limitandosi a prevedere un credito d’imposta pari al 60% del canone per i conduttori la cui attività è stata chiusa o limitata dalla legislazione emergenziale Covid-19. Non resta dunque che attendere l’esito dei giudizi instaurati successivamente alla pronuncia dei sopra citati provvedimenti, onde verificare l’effettivo orientamento dei tribunali di merito.

Il Protocollo condiviso: le risposte agli aspetti privacy problematici

Dopo il periodo trascorso in lockdown la “Fase 2” è iniziata ed alle imprese che riprendono l’attività spetta interpretare le normative e i documenti emanati in questo periodo d’emergenza per essere compliant e gestire al meglio la ripresa nel rispetto della salute e sicurezza del luogo di lavoro.

Un documento importante nella “Fase 2” è il Protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto ed il contenimento della diffusione del COVID-19 redatto in condivisione dalle parti sociali e contenente una serie di prescrizioni per il contenimento della diffusione del virus nello svolgimento – sicuro – dell’attività produttiva.

Il 24 Aprile è stata diffusa la versione aggiornata del suddetto protocollo (la prima versione è del 14 marzo), la cui applicazione su base nazionale è rinnovata dal D.P.C.M. del 26 aprile 2020. Il protocollo è recepito anche nell’Ordinanza Regione Veneto n. 44 del 3 maggio 2020, che ne inserisce il testo all’Allegato 2.

Principi generali

Il protocollo definisce il Covid-19 come rischio biologico generico: il documento pertanto si rivolge a tutte le aziende, in quanto possibilmente soggette a tale rischio, sia per la gestione della sicurezza dei lavoratori negli ambienti di lavoro, sia per l’adozione di misure di contenimento della diffusione nei confronti di chiunque entri nei luoghi di lavoro: clienti, fornitori, dipendenti dei fornitori e simili.

È bene evidenziare che, nella modifica adottata il 24 aprile, la mancata attuazione del protocollo, che non assicuri adeguati livelli di protezione, determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza.

Oltre alle prescrizioni organizzative (quali la sanificazione dei locali, ecc.), il rispetto del protocollo può comportare una serie di operazioni di trattamento di dati personali cui è bene porre attenzione per procedere in modo conforme alle normative vigenti.

Il Garante privacy è intervenuto in data 4 maggio con una serie di faq (https://www.garanteprivacy.it/temi/coronavirus/faq) volte a fare un po’ di chiarezza sui principali snodi problematici cui le imprese si sono trovate a fare i conti nell’attuazione del protocollo.

Modalità di ingresso in azienda (di tutti i soggetti) – Il datore di lavoro può rilevare la temperatura corporea del personale dipendente o di utenti, fornitori, visitatori e clienti all’ingresso della propria sede?

Innanzitutto, per rispettare la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro, è bene premettere che la misurazione della temperatura all’ingresso non ha carattere obbligatorio. È tuttavia vero che il Datore di Lavoro ha l’onere di garantire il rispetto delle misure a tutela della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro e, dal Par. 2 del protocollo, di impedire l’accesso ai soggetti con temperatura superiore ai 37,5°: per cui lo stesso potrebbe ritenere che la rilevazione della temperatura sia una misura necessaria.

In ragione del fatto che la rilevazione in tempo reale della temperatura corporea, quando è associata all’identità dell’interessato, costituisce un trattamento di dati personali (art. 4, par. 1, 2) GDPR), nel rispetto dei principi di “minimizzazione” (art. 5, par.1, lett. c) GDPR) la registrazione del dato relativo non è ammessa in linea generale, salvo che:

  • per quanto riguarda i dipendenti: la registrazione della sola circostanza del superamento della soglia stabilita dalla legge e comunque quando sia necessario documentare le ragioni che hanno impedito l’accesso al luogo di lavoro;
  • nel caso in cui la temperatura corporea venga rilevata a clienti (ad esempio, nell’ambito della grande distribuzione) o visitatori occasionali anche qualora la temperatura risulti superiore alla soglia indicata nelle disposizioni emergenziali non è, di regola, necessario registrare il dato relativo al motivo del diniego di accesso.

L’azienda può richiedere, quale condizione per l’accesso, di rendere informazioni in merito all’eventuale esposizione al contagio da COVID 19?

Il protocollo afferma che è inibito l’ingresso in azienda in presenza di condizioni di pericolo (sintomi di influenza, temperatura, provenienza da zone a rischio o contatto con persone positive al virus nei 14 giorni precedenti, etc).

Data questa premessa:

  • il datore di lavoro può invitare i propri dipendenti a fare, ove necessario, tali comunicazioni anche mediante canali dedicati;
  • tra le misure di prevenzione e contenimento del contagio vi è la preclusione dell’accesso alla sede dell’azienda a chi, negli ultimi 14 giorni, abbia avuto contatti con soggetti risultati positivi al COVID-19 o provenga da zone a rischio secondo le indicazioni dell’OMS.

A tal fine, si ritiene sia possibile richiedere una dichiarazione che attesti tali circostanze anche a terzi (es. visitatori e utenti).

In ogni caso dovranno essere raccolti solo i dati necessari, adeguati e pertinenti rispetto alla prevenzione del contagio da Covid-19, e astenersi dal richiedere informazioni aggiuntive in merito alla persona risultata positiva, alle specifiche località visitate o altri dettagli relativi alla sfera privata.

Qualora fosse prevista la rilevazione della temperatura e/o la raccolta di dichiarazioni scritte con cui si attesti di non versare nelle condizioni ostative di cui al Protocollo deve essere fornita specifica informativa ai sensi del Reg. UE 679/2016 ai lavoratori e a chiunque entri in azienda in merito ai trattamenti che l’azienda stessa potrà effettuare nell’applicare le misure di sicurezza.

L’identità del dipendente affetto da Covid-19 può essere resa nota agli altri lavoratori / al RLS da parte del datore di lavoro?

La risposta al quesito è no: in relazione al fine di tutelare la salute degli altri lavoratori, in base a quanto stabilito dalle misure emergenziali, spetta alle autorità sanitarie competenti informare i “contatti stretti” del contagiato, al fine di attivare le previste misure di profilassi.

Il datore di lavoro è, invece, tenuto a fornire alle istituzioni competenti e alle autorità sanitarie le informazioni necessarie, affinché le stesse possano assolvere ai predetti compiti.

Non solo, qualsiasi informazione relativa alla salute, sia all’esterno che all’interno della struttura organizzativa di appartenenza del dipendente o collaboratore, può avvenire esclusivamente qualora ciò sia previsto da disposizioni normative o disposto dalle autorità competenti in base a poteri normativamente attribuiti.

I soggetti adibiti alla rilevazione della temperatura

Si è discusso se i datori di lavoro potessero incaricare alla rilevazione della temperatura all’accesso dei locali aziendali – gli “autorizzati al trattamento dei dati personali” ai sensi degli artt. 4, n. 10 e 29 GDPR – dei dipendenti dell’azienda o se la rilevazione dovesse rimanere esclusivamente in capo al medico competente, eventualmente tramite delegati.

Dalla struttura del protocollo, che pone la gestione dei lavoratori sintomatici in capo al medico curante e non al medico competente e la base giuridica del trattamento nell’implementazione dei protocolli di sicurezza anticontagio, più propriamente inquadrabile nella lett. g) dello stesso art. 9, par. 2 (trattamento necessario per motivi di interesse pubblico rilevante), e non in quella della medicina del lavoro ex art. 9, par. 2, lett. h), sembra che la prevenzione del Covid si ponga al di fuori dell’ambito preventivo regolato dal d.lgs. 81/2008, pur ritenuto rilevante.

Pertanto, rimanendo che, laddove possibile, optare per il medico competente sembra una valida soluzione, il datore lavoro ha certamente la possibilità di affidare tale trattamento a personale qualificato, possibilmente formato in materia di privacy e/o di salute e sicurezza sul lavoro.

Il medico competente

Nell’ambito dell’emergenza, il medico competente collabora con il datore di lavoro al fine di proporre tutte le misure di regolamentazione legate al Covid-19 e, nello svolgimento dei propri compiti di sorveglianza sanitaria, segnala al datore di lavoro “situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti” ossia quei casi specifici in cui reputi che la particolare condizione di fragilità connessa anche allo stato di salute del dipendente ne suggerisca l’impiego in ambiti meno esposti al rischio di infezione. In capo al medico competente permane, anche nell’emergenza, il divieto di informare il datore di lavoro circa le specifiche patologie occorse ai lavoratori.

Questo quadro di misure, soggetto a continue evoluzioni, sarà inevitabilmente legato all’andamento dell’epidemia, sicché il la tenuta delle misure andrà “testata” nella sua applicazione pratica, nel rispetto delle normative emergenziali ma senza dimenticare i principi generali dell’ordinamento.

La fase 2, ovvero destreggiarsi tra i D.P.C.M. e le ordinanze regionali

Nel precedente articolo “Riapertura delle attività e la “fase 2”: obblighi per gli imprenditori e diritti dei lavoratori” (disponibile a questo link) venivano descritte in maniera succinta le previsioni governative che disciplinano la c.d. “fase 2”. Nella news citata ci si è soffermati sul D.P.C.M. 26 aprile 2020, il quale a sua volta prevede che le imprese le cui attività non sono sospese dovranno rispettare il Protocollo Congiunto (documento siglato dal Governo e dalla Parti Sociali).

La normativa applicabile alle industrie (e non solo) che operano in Veneto (così come in altre Regioni italiane) non è tuttavia unicamente quella di produzione statale, in quanto va considerata anche -e soprattutto- quella di fonte regionale.

Il Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, fin dall’inizio dell’emergenza legata al Covid-19, ha emanato una serie di ordinanze volte da un lato a definire il perimetro delle attività non sospese, e dall’altro a disciplinarne in concreto lo svolgimento.

Da ultimo, con ordinanza del 3 maggio, il Presidente della Regione Veneto ha previsto in dettaglio le misure che disciplinano la c.d. fase 2, e lo ha fatto integrando il proprio provvedimento con 4 allegati, ciascuno dei quali rivolti ad un settore specifico:

  1. misure per gli esercizi commerciali;
  2. protocollo condiviso per gli ambienti di lavoro;
  3. protocollo condiviso per i cantieri;
  4. protocollo condiviso per il settore del trasporto e della logistica.

Il provvedimento di cui si discute unitamente ai quattro allegati sopra richiamati, vanno naturalmente letti ed interpretati nel contesto in cui operano, con non poche difficoltà per l’imprenditore il quale deve destreggiarsi nel tentativo di produrre rimanendo competitivo nel mercato, di tutelare la salute dei propri dipendenti, e non da ultimo di evitare di incappare in sanzioni dovute alla scarsa chiarezza delle norme.

Riapertura delle attività e la “fase 2”: obblighi per gli imprenditori e diritti dei lavoratori

Ormai siamo tutti abituati a sentir parlare della c.d. “fase 2”, ovverosia quell’insieme di norme e previsioni che dovrebbero consentire al Paese di uscire dalla quarantena per ritornare, gradualmente, alla normalità. Ma in concreto quali sono gli obblighi per i commercianti e per le imprese? E, di converso, quali sono i diritti degli avventori e dei dipendenti?

Le norme che disciplinano la “fase 2” sono il D.P.C.M. 26 aprile 2020, il quale prevede che le imprese le cui attività non sono sospese dovranno rispettare il Protocollo Congiunto (documento siglato dal Governo e dalla Parti Sociali).

È necessario pertanto che ogni imprenditore si adegui alle previsioni di detto protocollo, dotandosi di tutte le misure in esso contenute.

Nello specifico di cosa si tratta? Il Protocollo ha ad oggetto procedure interne, dispositivi individuali di protezione, verifiche del Datore di Lavoro e massima collaborazione con il personale medico, con un occhio di riguardo anche agli aspetti legati alla privacy ed al GDPR (Reg. UE n. 679/2016).

Sono previsti anche degli obblighi di informazione che il Datore di lavoro deve garantire nei confronti dei propri dipendenti, devono essere disciplinate le modalità di accesso in azienda da parte dei lavoratori e dei fornitori esterni, devono essere previste misure di pulizia “straordinarie” ed in ogni caso idonee a limitare le possibilità di contagio, i dipendenti devono essere sensibilizzati ad un’igiene personale effettiva, e devono infine essere gestiti gli spazi comuni ed evitati in generale gli assembramenti.

Da ultimo, l’Azienda deve prevedere come gestire il caso di un dipendente e/o di un fornitore che risulti sintomatico o positivo al Covid-19.

Tutte le previsioni sopra succintamente descritte devono essere effettive e vi deve essere un’adeguata regolamentazione delle stesse, di modo che in caso di richiesta da parte dell’Autorità sia possibile per l’imprenditore darne evidenza anche attraverso l’esibizione di documenti.

Coronavirus e recesso dal contratto: i rimedi

“… il conduttore, qualora ricorrano gravi motivi, ha facoltà di recedere in qualsiasi momento dal contratto, dandone comunicazione mediante lettera raccomandata con almeno 6 (sei) mesi di preavviso.”

Quali misure può prendere il conduttore che, in tempi incerti come quelli che ci vedono interessati in questi giorni, si dovesse trovare nella impossibilità di adempiere alla propria obbligazione?

Come abbiamo già detto nel precedente articolo “Coronavirus e inadempimento contrattuale: i rimedi” (link) ci si trova davanti ad una ipotesi di “causa non imputabile al debitore” o forza maggiore che ricorre quando determinati provvedimenti legislativi o amministrativi, emanati dopo la conclusione del contratto per interessi generali (come la tutela della salute pubblica), rendano oggettivamente impossibile l’esecuzione della prestazione, in modo temporaneo o definitivo, indipendentemente dalla volontà dei soggetti obbligati

Tale condizione straordinaria potrebbe considerarsi quale possibilità di recesso dal contratto, superando il termine di 6 mesi contrattualmente previsto per l’avviso di recesso?

Il recesso è l’atto con il quale una delle parti contraenti manifesta la volontà di sciogliere il contratto. Tale facoltà, può essere esercitata solo se espressamente pattuita convenzionalmente (come la clausola di cui sopra) ovvero se prevista dalla legge.

L’esercizio del recesso può essere subordinato all’osservanza di un periodo di preavviso, il quale si pone conseguentemente come limite temporale all’efficacia del recesso e che la funzione di tutelare l’altra parte contrattuale dalle conseguenze negative di un recesso immediatamente efficace.

Il mancato rispetto del preavviso sopraindicato comporta due conseguenze notevoli: per il conduttore, l’obbligo di versare al locatore l’importo pari a sei canoni mensili pari al periodo del mancato preavviso, anche in presenza del rilascio dell’immobile (cfr Cass. n. 18167/2012).

Conseguenza ulteriore a carico del conduttore che recede per gravi motivi, senza dare il dovuto preavviso al locatore, è il risarcimento dei danni subiti dal locatore, a causa dell’anticipata restituzione dell’immobile. L’onere di dimostrare l’inadempimento del conduttore e che l’immobile è rimasto libero e non utilizzato grava sul locatore (Cass. n. 530/2014; Cass. n. 5827/1993).

È dunque possibile per il conduttore recedere dal contratto di locazione senza rispettare il termine di 6 mesi imposto convenzionalmente ma senza anche incorrere nelle sanzioni di cui sopra?

I provvedimenti d’urgenza adottati nelle ultime settimane non contengono norme che regolano questa materia.

La valutazione sulle conseguenze andrà individuata nel caso di specie.

In ogni caso, ricordiamo che per principio generale il conduttore non può sospendere il pagamento del canone, salvo solo il caso in cui l’immobile sia materialmente inutilizzabile.

Se invece l’immobile è in condizioni tali da poter essere utilizzato ed è nella pacifica disponibilità del conduttore, il quale tuttavia non ne può godere essendo vietato lo svolgimento dell’attività per il cui esercizio l’immobile era stato affittato, la situazione cambia. L’impossibilità di svolgere l’attività, non è imputabile a nessuna delle parti: è dovuta ad una emergenza straordinaria di tutela della salute: posso io conduttore congelare la mia sola prestazione di pagamento del prezzo?

È possibile sospendere il pagamento dei canoni di locazione/affitto in periodo di emergenza da Coronavirus?

Si potrà sospendere il pagamento del canone solo se tale facoltà sia prevista dal contratto di locazione o di affitto (in particolare, dall’eventuale clausola che regola i casi di forza maggiore).

Ma con alcuni limiti. Se la forza maggiore fosse prevista nel contratto di locazione o affitto si potrebbe richiedere la sospensione del pagamento dei canoni di locazione solo se espressamente previsto dal contratto e solo per immobili adibiti ad attività colpita da provvedimenti governativi che ne hanno disposto la chiusura totale, tra cui:

  • musei, teatri, cinema, biblioteche, archivi o altri luoghi di cultura;
  • istituti scolastici e di formazione;
  • sale giochi e sale scommesse;
  • discoteche;
  • palestre, centri sportivi, piscine, centri benessere, centri termali.

Per gli altri immobili, non colpiti dai provvedimenti di emergenza, non è possibile sospendere o ridurre i canoni di locazione/affitto, anche se il contratto contenesse una clausola di forza maggiore.

In ogni caso, è bene evidenziare, se la forza maggiore non è prevista nel contratto di locazione o affitto e la situazione di emergenza si protrae per un periodo eccessivamente prolungato:

  • Locazione di immobile colpito da provvedimento di emergenza: per l’immobile locato è stata disposta la chiusura totale, bene potrebbe essere invocata l’impossibilità sopravvenuta (definitiva) con conseguente risoluzione del contratto.
  • Per l’immobile locato è stata disposta la chiusura parziale: potrebbe essere invocata l’eccessiva onerosità sopravvenuta con conseguente rinegoziazione delle condizioni contrattuali oppure risoluzione del contratto.
  • Locazione di immobile non colpito da provvedimento di emergenza: non sembra possibile né sospendere il pagamento dei canoni né ricorrere agli altri rimedi: salvo fondare una richiesta di rinegoziazione del contratto sulla base della applicazione del principio di equità laddove fosse comprovata la eccessiva onerosità sopravvenuta ai sensi dell’art. 1467 c.c. (vedi il precedente articolo link in cui ne abbiamo parlato).

La tutela del conduttore andrà quindi ricercata nella sopravvenuta impossibilità di utilizzazione della prestazione: il conduttore non può, per una causa a lui estranea, utilizzare l’immobile per la ragione per cui lo aveva affittato. Da ciò possono trarsi valide argomentazioni non solo a sostegno della sospensione del pagamento dei canoni di affitto per tutto il tempo in cui saranno in vigore le limitazioni di cui alla decretazione d’urgenza ma anche il diritto di reclamare dal locatore il rimborso della parte di canone non goduto.

Occorre, pertanto, che il conduttore che intenda valersi di siffatta tutela, formalizzi al locatore la sospensione del pagamento del canone: allo stato non vi sono, infatti, provvedimenti che autorizzino la sospensione del pagamento dei canoni di locazione in favore di aziende, imprenditori, associazioni le cui attività sono stato sospese.

 

Appendice di aggiornamento al 19.03.2020

Il Decreto Legge n. 18 del 17.03.2020 (c.d. Decreto “Cura Italia”) introduce, all’art. 91, una disposizione che appare diretta a considerare le conseguenze di un inadempimento qualora le stesse derivino dal “ rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto …”.

Tale disposizione rappresenta un rafforzativo delle disposizioni del Codice Civile che lo stesso art. 1218 richiama direttamente: si tratta delle disposizioni di cui agli artt. 1256 c.c. “impossibilità definitiva o temporanea” e 1258 c.c. “impossibilità parziale”.

L’inciso inserito dal D.L. rileva sia in tema di pagamento dei canoni di affitto che relativamente a tutte le diverse e variegate possibilità di “inadempimento” che possano essere conseguenza dal rispetto delle disposizioni normative d’emergenza emanate in questi giorni.

Questo il testo della norma in esame:

Art. 91 (Disposizioni in materia ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici) 1. All’articolo 3 del DL 23 febbraio 2020, n. 6, convertito con modificazioni dalla legge 5 marzo 2020, n. 13, dopo il comma 6, è inserito il seguente: “6-bis. Il rispetto delle misure di contenimento di cui presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti.“. []”.

Anche alla luce dell’aggiornamento normativo appare difficile sostenere il diritto del conduttore ad un’automatica riduzione del canone. A questo punto, pertanto, qualora si voglia perseguire quel risultato non rimarrà che:

1) chiedere la riduzione del canone in via stragiudiziale;

2) nel caso di rifiuto del locatore, il conduttore potrà convocare lo stesso in mediazione;

3) nel caso di fallimento della mediazione, non rimane che la via giudiziale sostenendo una delle ipotesi più sopra formulate (ossia l’impossibilità parziale sopravvenuta, l’eccessiva onerosità sopravvenuta e la impossibilità temporanea di adempiere alla propria obbligazione dovuta alla impossibilità di svolgere la propria attività per causa non dovuta ad alcuna delle parti).

Clausole da inserire in un contratto stipulato in situazioni di emergenza: Covid-19

Come abbiamo visto nel precedente articolo (link) tra i molteplici effetti dell’emergenza sanitaria da Coronavirus si vedono anche quelli di incidere sulla capacità delle aziende di adempiere in modo corretto alle proprie obbligazioni contrattuali.

Le soluzioni giuridiche a tale difficoltà di adempimenti si potranno trovare nell’ordinamento interno ovvero, in caso di compravendita internazionale, dalle fonti che disciplinano la materia, laddove prevedono le conseguenze in caso di eventi eccezionali che, come abbiamo visto, possono definirsi all’interno del concetto di “eventi straordinari e imprevedibili”.

Per quanto riguarda l’ordinamento internazionale se ne tratta in due fonti:

  • Nella Convenzione di Vienna relativa alla vendita internazionale di beni mobili che all’art. 79 recita espressamente quanto segue: “Una parte non è responsabile dell’inadempienza di uno qualsiasi dei suoi obblighi se prova che tale inadempienza è dovuta ad un impedimento indipendente dalla sua volontà e non ci si poteva ragionevolmente attendere che essa lo prendesse in considerazione al momento della conclusione del contratto, che lo prevedesse o lo superasse, o che ne prevedesse o ne superasse le conseguenze”.
  • Da parte della Camera di Commercio internazionale, che ha redatto:
  • una clausola standard di forza maggiore “ICC Force Majeure Clause 2003”. Disciplina gran parte delle problematiche che si presentano nel contesto della forza maggiore: queste problematiche comprendono tutte quelle circostanze non imputabili alle parti che comportano l’impossibilità di adempiere alle obbligazioni contrattuali, come ad esempio scioperi, calamità naturali, guerre, etc..; in questi casi la parte che non può dare esecuzione al contratto per il verificarsi di una causa maggiore, non è ritenuta responsabile.
  • la hardship clause “ICC Force Hardship Clause 2003” che disciplina le ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione. Il termine hardshipviene tradotto come “disagio”, “avversità”.

La hardship clause e la clausola di forza maggiore sono diverse.

A differenza della forza maggiore la hardship non è un concetto giuridico, ma un’espressione descrittiva utilizzata per indicare un evento che accade ad una delle parti. Non essendo un concetto giuridico con un significato ben specifico l’hardship può essere definito ampiamente o restrittivamente, a differenza della forza maggiore che è una clausola ampia e ben definita.

In ogni caso, presente una delle clausole sopra citate, qualora si verifichi l’evento impossibilitante, la parte che lo invoca dovrà notificarlo alla controparte fornendo prova che l’evento verificatosi corrisponda a quanto previsto dal contratto.

Le suddette clausole possono essere “superate” se le parti chiedono l’inserimento di una clausola ad hoc.

Nei contratti di matrice anglosassone è già usuale, ad esempio, l’inserimento di clausole “material adverse event“, evento avverso, che preveda la possibilità di coprire le emergenze straordinarie.

Talune clausole applicabili a tali situazioni di impossibilità assoluta della prestazione vedono il conseguente esonero della parte inadempiente da responsabilità risarcitorie per il ritardo o la definitiva mancata prestazione, oppure potranno avere uno spettro di operatività più ampio, operando rebus sic stantibus: si farà infatti luogo alla risoluzione del contratto nel caso in cui, per un mutamento della situazione di fatto esistente al momento della stipulazione, la prestazione di una delle parti divenga eccessivamente onerosa o, se ciò è previsto dalla clausola, la parte la cui prestazione sia divenuta eccessivamente gravosa potrà esigere una rinegoziazione o un adeguamento delle condizioni del contratto, in alternativa allo scioglimento dello stesso. Tutto questo, mediante la definizione in via pattizia.

Ma iniziano a farsi vedere, anche nelle compravendite disciplinate dal diritto italiano e concluse in questi giorni di incertezza economica, le “clausole Coronavirus” inserite ad hoc dalle parti per cautelarsi.

I primi esempi riguardano la possibilità di rivedere le condizioni contrattuali originariamente pattuite se la situazione di emergenza dovesse perdurare o definitivamente incidere sulla opportunità della operazione commerciale anche nel momento in cui la situazione di emergenza sarà rientrata.

Coronavirus e inadempimento contrattuale: i rimedi.

In tempi di estrema incertezza nella vita privata a farla da padrone deve essere una corretta gestione degli impegni economici che ognuno di noi ha assunto.

Molti di noi si saranno trovati a far fronte ad una impossibilità o comunque ad una estrema difficoltà di adempimento delle obbligazioni commerciali già assunte, all’interno del territorio italiano.

Questo diventa maggiormente attuale laddove, in questi giorni, sono stati assunti numerosi provvedimenti normativi d’emergenza (Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) che limitano l’attività economica nel nostro Paese e nei quali, pertanto, l’epidemia sembrerebbe avere effetti sospensivi se non addirittura estintivi delle obbligazioni assunte.

Entrando nel merito

In via preliminare si deve evidenziare che, ai sensi dell’art. 1218 c.c., la mancata esecuzione di una prestazione costituisce “inadempimento contrattuale” tutte le volte in cui per l’obbligato la prestazione sia soggettivamente possibile: cioè in tutti i casi in cui con l’impegno di diligenza e di cooperazione richiesto, secondo il tipo di rapporto obbligatorio, potrei comunque procedere all’adempimento. La difficoltà nell’adempimento non impedisce la prestazione, con conseguente liberazione del debitore, ma costituisce soltanto un ostacolo che il debitore è tenuto a superare con la dovuta diligenza.

Perciò il debitore deve provare che l’inadempimento è stato determinato da “causa a sé non imputabile” o di forza maggiore, la quale è costituita non già da ogni fattore a lui estraneo che lo abbia posto nell’impossibilità di adempiere in modo esatto e tempestivo, bensì solamente da quei fattori che “da un canto, non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare per porsi nelle condizioni di adempiere e, d’altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo” (cfr Cass. Civ., Sent. n. 15712 del 08/11/2002).

Possono i decreti emergenziali emanati dal governo giustificare l’inadempimento?

L’ordinamento italiano non prevede espressamente una definizione di “forza maggiore”; solo il Codice del Turismo all’art. 41 co. 4 tratta così il caso: “In caso di circostanze inevitabili e straordinarie verificatesi nel luogo di destinazione o nelle sue immediate vicinanze e che hanno un’incidenza sostanziale sull’esecuzione del pacchetto o sul trasporto di passeggeri verso la destinazione, il viaggiatore ha diritto di recedere dal contratto, prima dell’inizio del pacchetto, senza corrispondere spese di recesso, ed al rimborso integrale dei pagamenti effettuati per il pacchetto, ma non ha diritto a un indennizzo supplementare”.

Il codice civile, tratta la materia rispettivamente agli artt. 1256 e 1467.

L’art. 1256 c.c. prevede il caso in cui via una impossibilità sopravvenuta che generi un ritardo o una totale impossibilità nella esecuzione della prestazione.

Qualora ricorra tale situazione, il debitore non sarà responsabile dei danni che controparte possa subire per effetto del ritardo nell’inadempimento, ai sensi dell’art. 1218 c.c., finché perduri la situazione di impossibilità.

Nel caso in cui l’impossibilità diventi definitiva, o comunque duri fino a quando l’interesse che la prestazione venga in concreto realizzata venga meno (ad esempio, le merci che avrebbero dovuto essere consegnate non siano più utili), l’obbligazione si estingue, con conseguente scioglimento del vincolo contrattuale (artt. 1256 e 1463 c.c.).

L’art. 1467 c.c., previsto nei casi di contratti a prestazioni continuate o periodiche, ossia differite, prevede il caso in cui a causa di eventi straordinari e imprevedibili la prestazione di una delle parti sia divenuta eccessivamente onerosa.

In questo caso, come vedremo, la parte la cui prestazione sia divenuta eccessivamente onerosa potrà chiedere la risoluzione del contratto.

Quali cause possiamo invocare?

1) Impossibilità sopravvenuta definitiva o temporanea di cui all’art. 1256 c.c.

Sotto il profilo giuridico i recenti provvedimenti emergenziali del Governo (DPCM) possono incidere sulla capacità di eseguire le prestazioni contrattuali, determinando l’impossibilità sopravvenuta di adempiere, ai sensi dell’art. 1256 c.c.

Ciò avviene in quanto rientrano nella fattispecie del c.d. “factum principis”. Quest’ultima rappresenta una ipotesi di “causa non imputabile al debitore” o forza maggiore che ricorre quando determinati provvedimenti legislativi o amministrativi, emanati dopo la conclusione del contratto per interessi generali (come la tutela della salute pubblica), rendano oggettivamente impossibile l’esecuzione della prestazione, in modo temporaneo o definitivo, indipendentemente dalla volontà dei soggetti obbligati.

Secondo giurisprudenza consolidata, gli ordini o i divieti emanati dalle autorità sono suscettibili di determinare l’impossibilità della prestazione qualora:

  • gli stessi siano del tutto estranei alla volontà dell’obbligato (Cass. Civ., n. 21973 del 19/10/2007);
  • non siano ragionevolmente prevedibili, secondo la comune diligenza, all’atto dell’assunzione dell’obbligazione ( Civ., Sent. n. 2059 del 23/02/2000);
  • il debitore abbia sperimentato tutte le ragionevoli possibilità per adempiere regolarmente (Cass. Civ., Sent. n. 14915 del 8/06/2018; Cass. Civ., Sent. n. 11914 del 10/06/2016).

Occorre, dunque, valutare se la durata delle misure restrittive adottate per limitare la diffusione del Coronavirus sia tale da estinguere l’obbligazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1256 c.c., fermo restando che il debitore sarà tenuto ad eseguire la prestazione nel momento in cui la causa dell’impossibilità dovesse cessare – indipendentemente da un suo diverso interesse economico – sempre che la stessa sia ancora utile a controparte.

2) Eccessiva onerosità della prestazione

Diverso è, invece, il caso in cui la situazione emergenziale e i relativi divieti governativi rendano una prestazione contrattuale non impossibile, ma eccessivamente onerosa.

Ai sensi dell’art. 1467 c.c., nei contratti a esecuzione continuata o periodica, se la prestazione di una delle parti è ancora possibile, ma è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di eventi straordinari e imprevedibili, la parte che deve eseguire tale prestazione può chiedere la risoluzione del contratto (salvo che tale eccessiva onerosità non rientri nel normale rischio cui è soggetta la prestazione).

Contrariamente a quanto previsto per l’impossibilità sopravvenuta, l’eccessiva onerosità non costituisce causa di estinzione di diritto dell’obbligazione, ma conferisce al debitore la facoltà di chiedere al giudice la risoluzione del contratto. La richiesta potrà avere come conseguenza la risposta, che è nel potere dell’altra parte, di non risolvere il contratto richiedendo una “riduzione” dello stesso per riportare in equilibrio le due prestazioni.

Il criterio di straordinarietà e imprevedibilità dell’avvenimento che legittima la richiesta di risoluzione del contratto è oggetto di attenta valutazione della giurisprudenza, che ha definito straordinario l’avvenimento che non si ripete con frequenza e con regolarità nel tempo, e imprevedibile l’evento che ragionevolmente non si prevede e di cui non si conoscono gli effetti. L’evento straordinario presenta quindi le caratteristiche di straordinarietà a seguito di una valutazione oggettiva che:

  • sia dovuta ad avvenimenti straordinari ed imprevedibili (e sotto questo profilo i provvedimenti governativi per l’emergenza sanitaria rientrano in tale ipotesi);
  • imponga all’obbligato un sacrificio economico che eccede il normale rischio del contratto.

Sotto quest’ultimo profilo, occorre dunque valutare, caso per caso, se l’evento straordinario e imprevedibile costituito dall’emergenza sanitaria e i conseguenti provvedimenti restrittivi determinino un aggravio patrimoniale per il soggetto obbligato tale da alterare l’originario rapporto contrattuale, incidendo sul valore di una prestazione rispetto all’altra, ovvero facendo diminuire o cessare l’utilità della controprestazione.

In conclusione

Il soggetto la cui attività abbia in qualche modo risentito dei provvedimenti normativi disposti a tutela dell’emergenza sanitaria del Coronavirus dovrà, per prima cosa, verificare se siano o meno presenti, nel relativo contratto, specifiche disposizioni che prevedano ipotesi di “cause non imputabili al debitore” (o di forza maggiore) o di eccessiva onerosità sopravvenuta ed eventuali conseguenze giuridiche.

Successivamente si dovrà passare alla determinazione, in concreto, degli effetti derivanti dall’impossibilità temporanea o definitiva della prestazione o dal sopravvenuto disequilibrio contrattuale, per procedere secondo quanto determinato dalla disciplina civilistica.

Fattura elettronica e decreto ingiuntivo: quid iuris?

La prova scritta nel procedimento di ingiunzione

Per ottenere la soddisfazione del credito nei confronti del debitore, lo sappiamo, si può accedere ad una procedura semplificata, il procedimento di ingiunzione, disciplinato dagli artt. 633 e ss. del c.p.c.. Si tratta di un procedimento di natura sommaria che prevede l’emanazione di un provvedimento in assenza di contradditorio fra le parti (inaudita altera parte), destinato – se non opposto e, quindi, entro breve tempo – ad avere forza di giudicato.

L’accesso a tale procedimento è possibile tutte le volte in cui si fornisca una prova scritta in ordine all’esistenza del diritto (art. 633 co. 1 n. 1 c.p.c.).

Sono prove scritte idonee (art. 634 c.p.c.) “le polizze e promesse unilaterali per scrittura privata e i telegrammi, anche se mancanti dei requisiti prescritti dal Codice civile”, inoltre ai sensi comma 2 “per i crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro nonché per prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano un’attività commerciale e da lavoratori autonomi, anche a persone che non esercitano tale attività, sono altresì prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili di cui agli articoli 2214 e ss. del c.c., purché bollate e vidimate nelle forme di legge e regolarmente tenute, nonché gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie, quando siano tenute con l’osservanza delle norme stabilite per tali scritture.

Il Giudice investito della procedura, in caso di crediti emergenti da fatture cartacee richiede, sulla base di tale presupposto normativo, il deposito di un estratto notarile autentico delle scritture contabili in cui tali fatture sono annotate. Questo al chiaro fine di fornire una prova “terza” ed inoltre “imparziale ed autorevole” che il documento autoprodotto dal creditore sia conforme all’originale da cui il credito sorge.

 

La fatturazione elettronica

Come a tutti noto, dal gennaio 2019 è entrato in vigore l’obbligo di emissione della fattura in formato elettronico (già prevista nei rapporti con la Pubblica Amministrazione già dal 2014). L’Agenzia delle Entrate, nel Provvedimento del 30 aprile 2018 n. 89757/2018, ha precisato:

  1. che la fattura elettronica è un file in formato XML (n.d.r. eXtensible Markup Language), non contenente macroistruzioni o codici eseguibili tali da attivare funzionalità che possano modificare gli atti, i fatti o i dati nello stesso rappresentati,
  2. e che nel caso in cui il file della fattura sia firmato elettronicamente, il SdI effettua un controllo sulla validità del certificato di firma. In caso di esito negativo del controllo, il file viene scartato e viene inviata la ricevuta (…), cd. ricevuta di scarto.

Il Sistema di Interscambio (SdI), nell’emissione della fattura elettronica, genera documenti informatici che sono autentici e non modificabili. Si tratta di “duplicati informatici” e non di mere “copie informatiche di documenti informatici”.

L’art. 1 co. 1 lett. i) quinquies del D.Lgs. n.82/2005 “Codice dell’Amministrazione Digitale” (CAD), prevede che: “Ai fini del presente codice si intende per […] duplicato informatico: il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario”.

Il duplicato informatico è quindi assolutamente non distinguibile dall’originale.

In ragione di queste caratteristiche l’art. 1, co. 3-ter, D. Lgs. 127/2015 prevede che i soggetti obbligati ad emettere in via esclusiva fatture mediante il SdI siano esonerati dall’obbligo di annotazione nei registri di cui agli artt. 23 e 25 D.P.R. 633/1972 (ossia il registro delle fatture emesse; in questo registro le fatture emesse devono essere annotate nell’ordine della loro numerazione e con riferimento alla loro data di emissione).

Il formato XML e i controlli del Sistema di interscambio rendono la fattura elettronica un documento idoneo per emettere un decreto ingiuntivo senza dover depositare i registri?

L’orientamento maggioritario della giurisprudenza – ancora soltanto di merito – intervenuta sul tema, è quello di considerare le fatture elettroniche titoli di per sé idonei per l’emissione, in favore di chi le ha emesse, di un decreto ingiuntivo, senza quindi l’obbligo di deposito dei registri di cui agli artt. 23 e 25 D.P.R. 633/1972 (cfr Tribunale di Verona 29 novembre 2019).

Il Tribunale di Verona nel procedimento R.G. n. 10221/2019 afferma che la fattura elettronica prodotta in giudizio è titolo idoneo per l’emissione di un decreto ingiuntivo, poiché tale documento deve ritenersi prova scritta equipollente all’estratto autentico delle scritture contabili previsto dall’art. 634, co. 2 c.p.c., in virtù anche della considerazione che, viste le caratteristiche sopra riportate, il SDI genera documenti informatici autentici ed immodificabili, che non sono semplici “copie informatiche di documenti informatici” bensì “duplicati informatici”, assolutamente indistinguibili dai loro originali, potendo essere scaricati da “fonte/terzo qualificato”, come l’Agenzia delle Entrate.

Sul punto, in accordo con quanto argomentato in tema di obbligo di tenuta dei registri (cfr punto precedente) ha affermato “che proprio in ragione delle sopra descritte caratteristiche della fattura elettronica, l’art. 1, comma 3-ter, D. Lgs. 127/2015 prevede che i soggetti obbligati ad emetterle in via esclusiva mediante il Sistema di Interscambio (di cui al comma 3°) sono esonerati dall’obbligo di annotazione nei registri di cui agli artt. 23 e 25 D.P.R. 633/1972 cosicché per tali soggetti deve ritenersi che sia venuto meno anche l’obbligo di tenere i predetti registri, e di conseguenza gli obblighi previsti dall’art. 634 comma 2, c.p.c. ai fini dell’ottenimento del decreto ingiuntivo, poiché è illogico pensare che un’impresa debba tenere delle scritture contabili che non ha l’obbligo di utilizzare”.

L’autentica del notaio presenta infatti una duplice funzione:

  • l’autenticità del documento;
  • la regolare tenuta dei registri.

Il formato xml del documento riesce a fornire prova di autenticità del documento stesso, per le caratteristiche di cui sopra, mentre non sopperisce all’onere di regolare tenuta del registro.

Difatti, va segnalato che, nonostante questa sia la giurisprudenza prevalente, il tribunale Vicenza (in data 25 ottobre 2019) ha espresso un parere contrario. La motivazione risiede nel fatto che la prescrizione della produzione dell’estratto autentico delle scritture contabili di cui all’art. 634 c.p.c. è finalizzata a consentire un controllo estrinseco sulla regolare tenuta delle scritture in cui le fatture vengono conservate, esigenza che non può considerarsi assolta con la fatturazione elettronica. Inoltre, l’esonero dall’obbligo di annotazione nei registri di cui agli artt. 23 e 25 D.P.R. 633/1972 non consentirebbe una idonea argomentazione perché “(…) il venir meno dell’obbligo, sotto il profilo che ci occupa, non è equivalente ad un’attestazione di regolare tenuta, la quale anzi deve essere esclusa proprio per l’insussistenza di un obbligo di tenuta dei registri”.

Raccomandata ed avviso di giacenza: quando la comunicazione si considera conosciuta?

Arriva il postino al tuo indirizzo e non trovandoti a casa, lascia l’avviso di giacenza di una raccomandata.

Dopo cinque giorni ti rechi in posta e ritiri la missiva: scopri che si trattava di una comunicazione che dava tempo cinque giorni dal ricevimento per porre in essere un comportamento attivo.

La prima domanda è quindi: i termini sono spirati? Il mio ritardo nel ritiro della busta può considerarsi tempo utile all’adempimento?

Quale termine vale per la legge? La consegna dell’avviso o il ritiro della busta?

È innanzitutto necessaria una premessa: se non ritiri la raccomandata nel momento in cui questa viene depositata per assenza del destinatario, questo non può, secondo la legge, cambiare la sorte della comunicazione. La comunicazione, trascorsi dei termini stabiliti, si considererà comunque giunta a destinazione e, quindi, ricevuta e conosciuta.

Il caso contrario porterebbe infatti ad un facile modo di sottrarsi alla notifica di una citazione, di uno sfratto, di una messa in mora.

Il codice civile, all’art. 1335 afferma che la “presunzione di conoscenza opera dalla consegna dell’atto presso l’indirizzo del destinatario.”

Tuttavia il medesimo art. 1335 c.c. stabilisce che è facoltà della parte notificata di provare che non ha avuto conoscenza dell’atto alla data di presunta conoscenza senza colpa, e di essere quindi rimesso in termini.

È ora necessario distinguere a seconda dell’atto contenuto nella raccomandata e capire cosa argomenta la giurisprudenza sul punto.

  1. Raccomandata contenente atti giudiziari

Nel caso in cui il delegato/postino consegni all’indirizzo una raccomandata e non trovi nessuno, rilascerà una comunicazione con cui informa del primo tentativo di notifica.

Nel caso di tratti di raccomandata contenente un atto giudiziario il destinatario riceverà inoltre una seconda raccomandata (informativa) in cui viene comunicata la giacenza presso l’ufficio postale, con l’avviso che è possibile il ritiro entro 30 giorni

Se non verrà ritirata entro tale termine, la raccomandata sarà restituita al mittente con la dicitura “compiuta giacenza”.

Quando, quindi, la raccomandata si considera ricevuta? (Cass. sent. n. 48191/17 del 19.10.2017)

  1. Se la raccomandata viene ritirata prima di 10 giorni dall’invio della seconda raccomandata (informativa): si considera ricevuta nel giorno stesso in cui viene ritirata;
  2. Se la raccomandata viene ritirata dopo 10 giorni dall’invio della seconda raccomandata (informativa): si considera ricevuta il decimo giorno dall’invio della stessa;
  3. Se la raccomandata non viene mai ritirata all’ufficio postale: si considera ricevuta il decimo giorno dall’invio della stessa.

  1. Raccomandata per tutti gli altri atti

Per le raccomandate che non contengono atti giudiziari, vi sono regole diverse.

Questo perché vi sono anche regole diverse sulla spedizione. Se il destinatario non è a casa al momento dell’arrivo del postino, non viene spedita la seconda raccomandata (informativa): si viene a conoscenza del tentativo di consegna della comunicazione solo attraverso l’avviso immesso nella cassetta delle lettere.

Quando, quindi, la raccomandata si considera ricevuta? Secondo la giurisprudenza al momento dominante (Cass. sent. n. 23396/17 del 6.10.2017):

  • dal momento dell’immissione dell’avviso nella cassetta delle lettere (senza che rilevi il decorso dei 10 giorni che invece vale nel caso di atti giudiziari).

Vale la pena segnalare che esiste una giurisprudenza minoritaria che ritiene (Cass. Sent. n. 25791/2016) che la comunicazione a mezzo raccomandata “si ha per eseguita, in caso di mancato reperimento del destinatario da parte dell’agente postale, decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza ovvero, se anteriore, da quella di ritiro del piego“.

L’orientamento dominante però, riterrebbe spirato il termine di 5 giorni dal momento dell’immissione in cassetta dell’avviso di avvenuto deposito, fatta salva la facoltà della parte notificata di provare che non ha avuto conoscenza dell’atto alla data di presunta conoscenza senza colpa, e di essere quindi rimesso in termini.